Giorni fa mi è capitato di leggere un post di un mio contatto che parlava, partendo come faccio solitamente io da molto lontano, dello stato della scuola italiana. Diceva, parola più parola meno, che sostenere come vorrebbe la vulgata che la scuola è mossa da insegnanti che non fanno altro che inculcare nozioni inutili, come a voler riempire un contenitore a forza, è del tutto fuorviante e sbagliato. Sosteneva, il mio contatto, che in realtà i professori non hanno nessun interesse a fare ciò, quanto piuttosto spendono il loro tempo e le loro energie a provare a infondere sapere nei giovani, così da formare gli adulti di domani, fornendo gli attrezzi per maturare e crescere, al loro buon cuore poi usufruire di questo beneficio. Fosse solo questo, immagino, avrei potuto semplicemente leggere quelle parole come una difesa d’ufficio della categoria, per altro da quel che leggo il tipo in questione è uno che si sbatte parecchio, ci crede, si spende. Invece il nostro andava oltre, sostenendo che se lo stato dell’arte, intendendo con questo lo stato culturale delle nuove generazioni e quindi dei giovani adulti che si stanno affacciando al mondo è così malconcio, sempre parola più parola meno, è perché i giovani non hanno sostanzialmente voglia di fare nulla, non studiano e puntano a sfangarla alla bene e meglio, contando anche sul supporto dei genitori, non dico “noi genitori” solo perché non è che il tipo stesse parlando direttamente a me, ma suppongo di rientrare in automatico nella categoria in quanto genitore di quattro figli in età di studio, noi a difenderli dai cattivi insegnanti, non in senso politico, i cattivi maestri alla Renato Curcio o Toni Negri, ma proprio gli insegnanti incapaci, a nostro dire, lì a viziare i nostri figli e difenderli nell’indifendibile, loro smidollati e noi iperprotettivi ingiustamente. Il nozionismo sbolognato in un post, switchando la colpa sui genitori che a suo dire costringono poi gli insegnanti a un approccio nozionistico, perché studiare e approfondire richiede fatica, mentre imparare a memoria nozioni è più semplice, incapaci, studenti e genitori, di capire che quelle nozioni dovrebbero servire per costruire impalcature teoretiche, non essere la facciata di un finto edificio, come in certi scenari di film western (questa è una immagine mia). Nello stigmatizzare questo atteggiamento, dei genitori, è ai genitori che il tipo si rivolgeva, il tipo parlava di teologia, cioè di un sapere calato dall’alto, dogmatico, dovuto proprio ai genitori stessi. Poi il tipo virava sul politico, era partito da certe dichiarazioni di Cingolani, riguardo le guerre puniche. Non ho risposto al post del tipo. Non condivido quasi nulla di quel che dice, e non avevo e non ho alcun interesse a affrontare con lui questo argomento, sapendo che le nostre posizioni sono così radicate da essere inconciliabili tra loro.
Mi interessa, invece, provare a raccontare una storia, questo faccio di mestiere, tanto quanto lui insegna. Certo, partire da sé per fare un discorso generico è sempre rischioso, lo sarebbe per me come genitore, ho quattro figli e per quanto quattro non faccia statistica, come del resto lo è per lui come insegnante, per quanto abbia esperienza non può certo parlare a nome di tutta la categoria. Del resto, ho quattro figli, ma conosco un certo numero di miei coetanei che, nel momento in cui la crisi economica arrivata al volgere degli anni zero, ha ben pensato di usare la propria laurea, quella sudata per poter fare i lavori che avevano evidentemente sognato di fare sin da ragazzi, per andare a insegnare, col risultato che alcuni si sono poi scoperti ottimi insegnanti, motivati, convinti, parlo con parole loro, altri hanno iniziato il loro assai lungo cammino verso il pensionamento, senza nessun interesse a fare di più di quel che un contratto sicuramente discutibile impone loro di fare, direi anche permette loro di fare. Ecco. Nella mia vita di genitore ho incontrato entrambe le genie di insegnanti, quelli convinti, assolutamente a fuoco, e quelli che invece hanno ripiegato su un lavoro sicuro, non fatto per loro.
Ho incontrato una fauna piuttosto variegata, come è normale quando le classi affrontate sono state alla fin fine non poche, ma soprattutto ho incontrato un approccio all’idea di scuola, questo sì universalmente accettato o dato per buono, nel quale non mi riconosco minimamente, e a ben vedere non mi riconoscevo neanche quando ero dall’altra parte della barricata, nei panni dello studente, figlio e non ancora genitore. Un atteggiamento che il tipo, poi smetto davvero di parlare di lui, cristallizza nella frasetta “impara a memoria due cose che dimentica dopo due giorni e pensa di essere salvo”. Ecco, pensare che la scuola sia una gara di sopravvivenza, una guerra o tutto quel che giustifichi l’idea che uno che la affronta poi si salvi in qualche modo è esattamente il motivo, penso, per cui la scuola non funziona. La nostra scuola non è tanto basata sul nozionismo, forse, ma sicuramente è basata sull’idea che ci sia qualcuno, il corpo insegnante, che deve giudicare con voti, voti che generano quasi sempre confronti, sviluppando una competitività che con l’apprendimento credo nulla dovrebbe mai avere a che fare. Nel farlo, nel giudicare con voti, il corpo insegnanti troppo spesso, se non sempre, si basa su canoni, non potrebbe che essere così, che in quanto tali, canoni appunto, poggiano su fondamenta valide forse per una porzione importante del parco studenti, ma non necessariamente per tutti, e comunque in quanto fondamenta, quindi qualcosa di preposto a affondare nel terreno, difficilmente posso contare su una velocità di aggiornamento. È un po’ come se per giudicare un calciatore, la prendo davvero larga, si dovesse contare solo sulla bravura nel palleggiare, senza tenere conto di senso tattico, di precisione nel passaggio, di senso del goal, di tenuta difensiva e via discorrendo, anche a seconda di che ruolo il calciatore andrà poi a occupare. Devi saper palleggiare e palleggiare più e meglio degli altri, o non funzioni. Capite bene che avremmo una classe di grandi palleggiatori che, in campo, le prenderebbero da qualsiasi squadra messa su con giocatori adatti ai singoli ruoli, capaci di stare sul campo, di seguire uno schema anche basico, non necessariamente tutti bravi a palleggiare (un portiere, per dire, credo possa serenamente non saperlo fare, idem uno stopper). Credo che questo, unito al principio per cui nella nostra scuola esiste una gerarchia ben precisa di materie, poi sul fatto che spesso chi insegna nelle materie che di questa gerarchia occupa le ultime posizioni si potrebbe in effetti aprire un trattato, il De frustratione, tanto è evidente che nella vita sognavano di fare altro, credo che questo unito al principio per cui nella nostra scuola esiste una gerarchia ben precisa di materie porta, per dire, al fatto che uno dotato nel disegno o nell’atletica sia considerato spesso una sorta di minus habens, come se non fossero anche quelli talenti, campi del sapere degni di essere sviluppati, specie da chi vi è particolarmente portato per sua natura. Questo per non dire di come la scuola, questo magari più per una arretratezza a monte, non riesca a comprendere chi non è proprio compatibile con i binari ferrei e fermi che i percorsi scolastici non tanto prevedono ma vedono proprio come la sola strada possibile. Un modo per ammazzare i talenti, per soffocare in culla anche solo la voglia di crescere, spingendo spesso alunni che con quei binari non possono avere a che fare, indicati come alunni che con quei binari non vogliono avere a che fare, verso una deriva di disincanto che, credo fermamente, è la più grande colpa che certo corpo insegnanti e più in generale la scuola tutta ha.
Esiste tutta una iconografia cinematografica, parlo soprattutto di cinema hollywoodiano, che vuole lo studioso, il nerd, assai migliore del campione sportivo, quasi sempre football americano. L’uno sfigato, almeno in apparenza, in realtà intelligentissimo e pronto a sfangarla, l’altro forte ma fondamentalmente scemo, anche cattivo, con inizialmente le più belle della scuola attorno, le cheerleaders, pronte però a voltargli le spalle a favore proprio del nerd. Peggio, stiamo parlando di iconografia, spesso il nerd è innamorato della cheerleader, e confida la cosa all’amica del cuore, infagottata in abiti oversize, gli occhialoni a coprire lo sguardo, i capelli legati in una goffa coda, salvo poi scoprire che l’amica del cuore è assai più bella della cheerleader, con la differenza di essere anche decisamente più intelligente. Inutile dire che la cheerleader è bionda, sempre. Un concentrato di orrori, questo, ora vi spiego anche perché. Da una parte si tende a considerare intelligenza solo quella applicata o applicabile allo studio delle materie che passano dai libri, siano essere scientifiche o umanistiche, senza prendere in considerazione l’intelligenza del corpo, quella che evidentemente il campione di football americano deve avere. Discorso a parte una certa spocchia, diciamo pure discriminatoria, nei confronti della bellezza, stigmatizzata al punto da identificarla d’ufficio con stupidità e cattiveria.
Succede così anche da noi, dove educazione fisica viene a stento considerata una materia, lo sport visto come uno svago, roba per far sfogare ai nostri figli un po’ di energia in eccesso. Il tutto senza minimamente tenere conto dei talenti degli studenti, non esistono prove Invalsi che riguardino anche l’educazione fisica, l’assioma sportivo-semianalfabeta è praticamente data per assodata, certo anche grazie al contributo non da poco di certi calciatori, lo sport che in Italia è praticamente lo sport di stato, non sempre brillantissimi quando si tratta di parlare di fronte a un microfono.
La performatività, solitamente parte integrante proprio dello sport, checché ne dicesse De Coubertain, è diventata parte integrante del sistema scuola, ma lo sport ne è stato escluso d’ufficio. Le mie parole precedenti, quelle che bollavano come irrilevanti le materie “minori”, erano atte a cementare questo passaggio, lo dico conscio di aver decisamente urtato la sensibilità di qualche insegnante di tecnica alle medie o di storia dell’arte al classico.
Eppure sarebbe così semplice partire dal principio che ogni singolo elemento, parlo di studenti ma il discorso potrebbe essere allargato all’intera umanità, ha sue caratteristiche specifiche, non necessariamente talenti, ci mancherebbe, ma peculiarità sì, e giudicarla secondo canoni rigidi è di per sé impossibile, perché pretende una omologazione inesistente in natura.
In carriera, diciamo nel corso almeno degli ultimi venticinque anni, mi è capitato di intervistare spesso artisti che hanno composto canzoni che ho trovato sublimi, non sempre in odor di capolavoro, ma sicuramente meritevoli di attenzione. Canzoni che ci raccontano la nostra vita con parole e immagini che noi non saremmo capaci di trovare, di quelle che infatti diventano patrimonio comune, cantate in coro ai concerti, tatuate sulla pelle dei fan, scritte sui diari, sempre che ancora i diari esistano e non siano stati sostituiti dai registri elettronici. Canzoni che le senti e pensi che chi le ha scritte deve assolutamente essere un genio, una persona con un carico di sensibilità ben sopra il comune, qualcuno che merita di essere conosciuto, di più, frequentato. Poi intervisti l’artista in questione e scopri di trovarti di fronte una persona che a malapena spiccica frasi fatte in un italiano stentato, quasi mai dicendo cose profonde, comunque mai all’altezza delle canzoni scritte. Al punto che, almeno ai primi tempi, mi è capitato di chiedermi se quelle canzoni, che anche io avevo amato, non fossero state frutto della penna di qualcun altro, troppo alte per essere uscite da certe bocche e soprattutto da certe teste e certi cuori.
Poi ho capito, e qui torno al discorso iniziale, discorso che in fondo non ho mai abbandonato. Il talento di quegli artisti non è parlare, infilare frasi pregne di significato dentro le interviste. È quello di scrivere canzoni. Giudicare quegli artisti per le interviste avrebbe lo stesso valore che giudicare un campione di football per come va in matematica. Pensare che nel trincerarsi dietro uffici stampa iperprotettivi è pensare che stiano cercando di salvarsi, come se esista qualcosa rispetto al quale è ipotizzabile una salvezza e come se qualcuno ci abbia dato un ruolo da salvatore. Ostinarsi, poi, a non capire che pensare di avere sempre di fronte persone omologate è tanto stupido quanto aberrante, perché chi insegna dovrebbe coltivare le nuove generazioni e farle crescere nel miglior modo possibile, non potarne i talenti o le aspettative, tarpare ali e sogni è compito di chi punta all’ottusità, non certo di chi dovrebbe insegnare a volare.