E se i Måneskin spaccassero davvero? A cinque anni dall'esordio a Napoli, in quella Casa della Musica, piccola sala del Palapartenope neanche piena, rieccoli in doppietta sold out dall'ingresso principale. Diecimila fan in delirio, c'è chi ha messo persino le tende, nella speranza di accaparrarsi i posti migliori e meglio ancora la benedetta transenna. MOW, più easy, arriva col pass (stampa), segno che ai “piani alti” sono ammesse le critiche, touchè. Ciò che penso di Rush! e della proposta musicale (e non) della band dovreste saperlo. Del resto non li risparmia neppure la critica oltreoceano, checchè. Anzi bastona che è un piacere. Per questo l'atteggiamento è lo stesso scettico di San Tommaso. “Che ci faccio qua?”. Questione di un momento.
Alle 21 e un minuto iniziano i primi fischi di richiamo del pubblico, che va ben oltre le ragazzine frementi. Un'attesa riempita da un gran telo rosso e spazzata via dal boato che accoglie semplici ombre che si muovono. Tutti e quattro stranamente vestiti (almeno all'inizio, leader e batterista rimarrano a torso nudo), inclusa Victoria, forse a pagare pegno al bigottismo. Urla e applausi sulle note di Don't wanna sleep, e così il capoluogo campano saluta il bis della band. Segue una vera e propria fucilata d'energia, con l'ultimo disco in bella mostra e in mezzo i primi successi (ancora più apprezzati). Il pubblico canta dall'inizio alla fine, non c'è trucco e non c'è inganno. Come sul palco, via gli artefici, Damiano, Vic, Ethan e Thomas suonano e basta. Nessun intramezzo parlato, nessun orpello, nessuna paraculata (una rarità), anche la scenografia è essenziale e ridotta a un (gran) gioco di luci.
Una voce, un basso, una chitarra e una batteria, nient'altro. David tiene il palco da frontman navigato, e incitamento quanto basta: “Ci sei Napoli? Voglio sentire un cazzo di casino!”. Tripudio per lui meritato. Gli fa eco la De Angelis, che duella all'ultimo riff col buon Raggi, il migliore dei quattro, musicalmente parlando. Chiude il cerchio magico Torchio, il più bello dei quattro, non me ne voglia il cantante, a cui finisce tra le mani anche un reggiseno taglia abbondante (non il mio, sia messo agli atti).
Scomparse dalla scaletta gran parte delle cover per allungare il brodo, non saltano però Beggin' (a cui devono l'exploit internazionale) e Amandoti, rifatta in acustico su una piattaforma in mezzo al parterre. Altri punti potenti su Gasoline, con fiammate (finte) che avvolgono l'asta del microfono e il momento on stage coi prescelti tra il pubblico sul palco per dimenarsi su Kool Kids. Poi il finale, introdotto dal lungo (forse troppo) assolo del chitarrista, con l'immancabile lentone The Loneliest.
Pausa. Due ore piene di musica che resuscitano il rito del concerto rock (seppure virato al pop, non c’è di che). Mentre la folla si sofferma a scattare gli ultimi ricordi, e il tour continua verso Bari e poi ancora Milano e poi mezzo mondo (nel vero senso della parola) e gli stadi quest'estate, sotto il palco faccio una pensata ragionevole, al netto del repertorio migliorabile (non si sopravvive a lungo altrimenti): in fondo il Maradona è a due passi... Vuoi vedere che in America li bastonano perché nativi italiani? Non sono i Rolling Stone (ci mancherebbe, il confronto non regge), ma la cazzimma c’è.