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Altro che Depp-Heard: il vero horror è la storia tra Evan Rachel Wood e Marilyn Manson

  • di Grazia Sambruna Grazia Sambruna

18 giugno 2022

Altro che Depp-Heard: il vero horror è la storia tra Evan Rachel Wood e Marilyn Manson
Il documentario Phoenix Rising, su Sky e Now, racconta la storia dei presunti abusi che avrebbe vissuto per quattro anni e mezzo l'attrice Evan Rachel Wood da Marilyn Manson. Una vicenda che impone una riflessione su come minare le dinamiche che stanno alla base delle relazioni tossiche, al di là degli hashtag e delle campagne social di (personal) branding

di Grazia Sambruna Grazia Sambruna

È appena passato l’hangover per la sbornia globale del processo Johnny Depp vs Amber Heard, l’ex moglie del divo hollywoodiano che ha perso la causa da lui intentata contro di lei in Virginia. La giustizia americana, dopo sei anni, ha acclarato ciò che nella pubblica opinione era da tempo ben più di un sospetto: le sue accuse di molestie e abusi indirizzate al Capitan Jack Sparrow, erano verosimili quanto la Maledizione della Prima Luna e i Pirati dei Caraibi tutti. Bene, se avete voglia di un incubo reale, su Sky e Now c’è Phoenix Rising, il doc prodotto da HBO, in cui Evan Rachel Wood, Dolores di Westworld, racconta, diari alla mano, i quattro anni e mezzo di angherie subite da Brian Warner, in arte Marilyn Manson, suo ex compagno. Ci sono molte ragioni per non perderlo. E nessuna di queste, per fortuna, ha a che fare col voyeurismo tout court.

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Si tratta di un monografico, Manson non ha voluto partecipare al progetto, in cui è la sola voce di Wood a raccontare i fatti. “Ho ancora paura di pronunciare il suo nome”, confessa l’attrice prima di dare inizio alle macabre danze del racconto. Evan aveva 18 anni quando conobbe a un party il trentasettenne Brian Warner che le si avvicinò per proporle un progetto cinematografico sghembo ma sulla carta interessante: la versione emo-dark di Alice nel Paese delle Meraviglie con lei come protagonista. Wood, all’epoca, era reduce dal successo del film scandalo Thirteen e Hollywood tendeva ad assegnarle parti da Lolita problematica che non la rappresentavano. Enfant prodige, lavorava nel cinema dall’età di cinque anni ed era cresciuta di set in set senza mai andare a scuola (si diplomò “home schooled”). Al netto di una piccola relazione con Jamie Bell (sì, “Billie Elliot”), raggiunta la maggiore età non sapeva nemmeno di avere una vagina. O se fosse “giusta” quella che si ritrovava tra le gambe. Un giornaletto porno buttato per strada di fianco a un bidone della spazzatura, le fa capire che sì: “A Sud è tutto ok”.

Zero educazione sentimentale e opportunità di misurarsi con gli altri, manco un briciolo di basi sui rapporti interpersonali e sulla sfera sessuale. Come coppia, Rachel, conosceva solo i suoi genitori che, dopo aver litigato a sangue per anni, una bella mattina decidono di divorziare perché la madre, sfinita, non accetta che il padre insegni alla figlia: “Gridiamo e ci picchiamo così perché è questo che fanno le persone che si amano”. Ma oramai Wood queste cose le aveva ben viste, ci era cresciuta e sullo schermo seduce tutti per copione. È immersa in questo magmatico caos quando incontra colui che sarebbe diventato il suo primo grande amore: Brian Warner, aka Marilyn Manson. What could possibly go wrong? 

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Lui all’epoca era già sposato con la diva del burlesque Dita Von Teese, ma perde la testa per la “lolita” bionda del cinema e, dopo esserle stato amico e confidente per qualche mesetto, tenta l’approccio. “Non mi attraeva per nulla”, racconta lei, “ma mi sentivo finalmente capita da qualcuno”. Manson divorzia e diventano una coppia. Dopo le prime fasi di idillio a tinte burtoniane, comincia l’inferno: lui, con un passato di violenza domestica subita in famiglia da parte del padre, le mette davanti al muso qualunque tipo di droghe (che sorpresa!), lei accetta di buon grado salvo poi trovarsi strafatta per la maggior parte del tempo. Ehi, che ti aspettavi? Vero. Ma non si può pretendere da una “bambina”, così lei stessa si definisce riguardando le vecchie foto che li immortalano insieme, la medesima maturità e capacità decisionale di una donna adulta. Crescere è una roulette: provi un po’ di tutto e vedi come va. Rachel non aveva i mezzi per rapportarsi a un coetaneo, figuriamoci a un quarantenne che già faticava a rapportarsi con se stesso. Per quanto, sul palco, fosse una rockstar venerata da milioni di fan in tutto il mondo. Nessuno o quasi, all’epoca, riusciva a vedere in lui l’ovvio: le insicurezze, la voglia di rivalsa rispetto a una società che non l’aveva mai accettato davvero tra bullismo e botte in casa. Marilyn Manson era la voce degli emarginati, di chi fino ad allora una vera e propria voce non l’aveva mai avuta. Peccato solo che lui, Brian, una volta preso il megafono, non avesse granché da dire a parte che i belli gli stessero sul cazzo. Il Reverendo, l’Anticristo era un coglione. Amen. 

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Incisioni sulla pelle, stupri sul set di videoclip, l’ufficio stampa che rifila a Wood le dichiarazioni da dare ai giornali e lei che le dice. Manson era, in qualche modo, il suo “dio” e Rachel una marionetta nelle sue mani. Come l’adepta di una setta, aveva voglia di essere esattamente dov’era. Ma a farla restare al suo posto senza “sbagliare”, c’era soprattutto la paura. Era già celebre e lo sarebbe rimasta comunque. Ma chi vorrebbe far incazzare un “dio” (in cui crede davvero)? Quali sarebbero, poi, le conseguenze? 

Dopo quattro anni e mezzo Wood esce da questa torbida storia di abusi e sottomissione totale. Invece di limitarsi a frignare sui social e apporre “Survivor” alla propria Instagram bio, si batte, supportata da un team di legali, per l’approvazione della Phoenix Law nello Stato della California. E ci riesce. Anche grazie al suo impegno e alle sue testimonianze in aula, infatti, la prescrizione per i casi di violenza domestica passa dai tre ai cinque anni. Può sembrare una piccola cosa. Ma non lo è per nulla. Come Wood ben dice: “La vittima ha bisogno di tempo per rendersi conto di aver subito degli abusi”. Soprattutto quando si tratta di angherie psicologiche (anche se, purtroppo, non solo), la persona che le subisce vive in una bolla, in un castello di carte erto ad hoc dal suo carnefice. All’interno, non esistono le regole del buonsenso generale e della società - da cui è comunque progressivamente isolata. Di abuso in abuso, perde totalmente la propria libertà considerando “giusto” ciò che le accade. La manipolazione è la trappola peggiore in cui si possa rimanere imprigionati. Soprattutto perché non c’è spazio per il libero arbitrio, l’autodeterminazione, la consapevolezza di sé. Ribellarsi a cosa? Perché? 

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Guardare il doc Phoenix Rising, diviso in due parti, aiuta a comprendere come l’abusata espressione “relazione tossica” non sia un hashtag, ma un problema sociale serio e concreto che si può e deve combattere sul piano legislativo per dare più garanzie e tutele alle vittime. Le campagne social tematiche dei vari (personal) brand stanno a zero: sono solo e chiacchiere e narcisismo. Quando affronteremo, davvero, la questione della violenza? Wood ne è uscita come una fenice che risorge dalle proprie stesse ceneri, ma è incalcolabile il numero di persone, donne e uomini, che vive ancora nella paura fortemente convinto che si tratti d’amore. Nessuno merita di vivere da schiavo. Non Evan Rachel Wood, non la vostra vicina di casa. Se non ora, quando?

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