I Fontaines D.C. sono tutto quello che noi giovani vorremmo essere: esuli e patrioti; con la bandiera in mano anche fuori dall’uscio; con l’occhio rivolto ai padri e all’avanscoperta del mondo. Senza vivere di nostalgie, con le spalle ben protette, sempre forti, attaccati alla madre Irlanda. Adesso che è avvenuta la diaspora, che il gruppo si è trasferito a Londra da circa un anno, è il senso di colpa per la madre, un senso di scissione e disorientamento ad animare il corpo dei testi. Skinty Fia (terzo album della band uscito ad aprile) è un disco dissonante, assomiglia al sound dei Sonic Youth; e la dissonanza è sintomo di disarmonia, di disaccordo. Ma questo non si risolve in un conflitto, in una lotta con l’alterità, in una volontà di potenza.
“Non vivo più nel mio Paese. Vivo in quello responsabile di gran parte del caos che c’è a casa mia, ora sto nel Paese che ci guarda dall’alto verso il basso” dice Grian Chatten in un intervista a Rolling Stone. Invece di mescolarsi al mondo, o di lottare contro il Paese che da decenni ne diniega l’identità, la band di Dublino decide di non aprirsi, di non popolarizzarsi, ma di chiudersi, di stringersi attorno alla flag irlandese. Il successo non contamina le radici, ed allo stesso tempo non diventa un pretesto per scadere nell’inno alla madre patria, nella canzone patriottica, nella semplice invettiva che puzza sempre d’ideologia (e noi in Italia lo sappiamo, così pieni di canzonette indie naif, che cianciano in politichese spicciolo). I Fontaines si sentono, percepiscono le proprie vesti, sanno di essere diversi perché hanno vissuto il piccolo, il non globale, perché hanno solcato le vie di Dublino, hanno l’accento vivo, citano Joyce, puzzano di Guinness. E la scissione non ricade nella paranoia, nella ferita non risolta: sanno di avere il proprio punto fermo, sentono il senso di abbandono, la colpa dell’abbandono (“When they knock for ya don’t forget who you are”). Così la dimora a Londra diventa una Roman Holiday, quasi fosse una parentesi momentanea, un inciso da vivere da turista, consapevoli di un futuro ritorno a casa : l’invito della canzone è quello di stonarsi, letteralmente (“ get stoned”), con o senza erba (“Was it the weed or the moment that stoned ye?), di indossare i tacchi, di vagare per la città londinese, azzerare le chiacchere attorno, ritrovare la propria strada (“Well, you know what I'm saying. Our day will come”).
I testi, talvolta ermetici, di Grian Chatten, incrociano condizione esistenziale, senso di smarrimento e di perdita, quasi in maniera logorroica, col suo stile classico della ripetizione ad oltranza, che è auto convincimento, promemoria e assieme riflessione, come se sulle parole ci si dovesse tornare più e più volte per guardarle in faccia, per non lasciarsi risucchiare dalla successione, dal fluire delle cose. Ripete con la sua voce baritonale, in maniera monotòna, perché non cambia il colore della parola, le sfumature non cangiano al di sopra del suono: non è una questione di prospettiva, l’amore è qualcosa di freddo, reiteratamente “Love is so cold”, perché scade facilmente nella monotonia abitudinaria, nel gelo della stasi che consuma se stessa (“They sit in their room/They all consume/They fall in their bed/They wanna go dead”). “Gone is the day, gone is the night, gone is the day” , e ancora “ Everybody gets a big shot, lately” sono alcune delle frasi spinte fino allo stremo all’interno dei brani.
Emblematica è “I love you”, una canzone d’amore per l’Irlanda, inimmaginabile al mondo d’oggi, dove è il sogno dell’espatrio, il mito dello sradicamento a pervadere l’immaginario giovanile: Chatten lo esprime a cuore fermo, caldo che non c’è futuro senza Dublino (“And if it's a blessing/ I want it for you/If I must have a future/ I want it with you”). E le musiche perdono struttura, rallentano, la voce evade e si estende; le canzoni paiono sembrano non partire mai. Ma questo è quello che Fointanes sentono e voglio trasmettere: quello di lasciare di trascinare l’ascoltare nell’abisso della cantilena, del riverbero di voce e chitarre tremolanti.
La convivenza con Londra, del resto, è ancora lunga; Dublino rimane lontana, c’è un mare che li separa, una lingua, un solco politico, un modo di vivere. Ma i Fontaines vogliono ancora esplorare, tra rami e radici, arrampicarsi e tornare a terra, vagare in circolo come Chatten sul palco. Cazzutti, nevrotici, irlandesi, dopotutto: “I've been leaving it all/ I've been living it all”