La felicità per gli antichi era molto diversa dall’euforia ma anche dalla spensieratezza con cui spesso la identifichiamo oggi.
Oggi siamo da un lato ossessionati dall’idea di ‘mostrare’ la felicità: basta vedere gli hashtag #happy/#happylife su instagram. Milioni di post, che immortalano l’impresa di “fermare” la felicità per fare in modo che gli altri la vedano. Il che è un po’ difficile secondo me, che pure ci ho provato tante volte: fotografare un momento felice implica in qualche modo l’uscire da quel momento. Il risultato, a mio parere, somiglia molto alle fotografie che facciamo alla luna o alle stelle – magari funziona come un ‘appunto’, per ricordare quell’istante, quella visione precisa, ma non regge il confronto con la bellezza della realtà. Poi, più è miracoloso, nel senso di raro e inaspettato, il momento felice, più possiamo essere certi dell’impossibilità di immortalarlo: non si fotografa una stella cadente. Dall’altro lato, abbiamo tutti paura di non potere, o di non sapere, essere felici, un po’ perché questa ostentazione di felicità genera quasi una competizione a chi sa godersi meglio la vita (cfr. i dati sul fatto che durante il lockdown molte persone abitualmente afflitte da senso di inadeguatezza ecc. per il continuo confrontarsi con la narrazione delle vite altrui sui social sono state più serene!); un po’ perché la nostra idea di felicità ce la rappresenta come qualcosa di momentaneo, di puntuativo. Un attimo di euforia o anche solo di spensieratezza (infatti pensiamo che più conosciamo la vita, più saremo disillusi e quindi infelici: tutto il contrario dei greci antichi per cui il saggio è felice), un cielo senza nubi che, per definizione, non può durare: può concedersi, ma per poco. E alla prima nuvola, addio.
Per i greci antichi, la felicità è qualcosa di molto più strutturato e disciplinato: la parola greca per dirla – εὐδαιμονία – rimanda all’importanza di avere “un buon daimon”: ovvero un daimon benevolo, cioè soddisfatto. Il daimon ha a che fare con la sorte, ma anche, e soprattutto, con la fedeltà a quello che siamo davvero, alla nostra più reale e più intima vocazione. Nell’Apologia di Socrate il daimon fa la sua comparsa in un passaggio cruciale, quando Socrate, che si sta difendendo da solo dalle accuse dei suoi concittadini, lo cita come una voce che lui ascolta fin dall’infanzia, e che ogni volta che si fa sentire lo fa per dissuaderlo dal compiere azioni che non gli corrispondono.
Essere felici, ovvero riuscire a vivere evitando di tradire noi stessi, è tutt’altro che facile, e tutt’altro che facile doveva essere anche allora. Di fatto, però, credo che questa idea della felicità come riconoscimento di noi stessi – un riconoscimento che non può prescindere dal riconoscere anche negli altri il segno, direbbe Montaigne, un antico moderno, della condizione umana – possa dire molto anche a noi, oggi.
Credo che provare ad andare incontro all’idea di felicità degli antichi potrebbe essere il modo per liberarci una volta per tutte dalle dicotomie (fra felice-incosciente e saggio-disilluso, per dire) che ci fanno guardare alla felicità come a un puro stato di esaltazione, un’ubriacatura passeggera che per sua natura deve passare – come a un’illusione. Spesso si parla di felicità in questi termini: uno strappo irresponsabile, un’illusione perdonabile, ma pur sempre un’illusione. Credo sia ingiusto nei confronti della felicità confonderla con l’incoscienza; come è ingiusto verso la saggezza pensare che essere saggi significhi essere barbosi e incapaci di vivere la vita. Per i greci il saggio è felice; non conoscevano queste nostre semplificazioni. E credo che, su questo punto, dovremmo proprio cercare di imparare qualcosa da loro.