L’estate sta finendo, come cantava un fortunatissimo duo synth pop italiano a metà anni ’80 (finito meritatamente anche nella colonna sonora de Il Commissario Lo Gatto con Lino Banfi). Sono le 7 e io consumo il mio solito, consunto rituale mattutino: mi siedo sulla tazza e apro Facebook. La prima cosa che vedo è una foto in bianco e nero di Tommaso Labranca. Resto lì un po’, coi miei occhi cisposi, a fissarlo, dopotutto sono anni che non lo vedo, né in foto né tantomeno di persona. Sono anche anni che non ne sento parlare e, per ciò che ne so, che non lavora in tv e che i media non si occupano di lui. Mi dedico alle mie generiche attività quotidiane, inizio a scrivere e ogni tanto riapro Facebook: vedo che le foto di Tommaso sono aumentate, accompagnate spesso dall’emoticon di un cuoricino. Nella semantica dei social, quando parecchie persone non legate tra loro da conoscenza o amicizia postano tutti foto della stessa persona significa in genere una cosa sola: che quella persona è morta. L’annuncio della scomparsa lo leggo nelle notizie (per lo più annunci stringati) di lì a poco: si è spento nella sua casa di Pantigliate, quella che lui chiamava non senza ironia “Maison Labranca”, solo, a 54 anni. È il 29 agosto del 2016.
Ho frequentato Tommaso solo dal 1999 al 2003 circa: un lasso di tempo piuttosto breve, nel quale, anche se ci sentivamo e vedevamo più volte la settimana, non posso nemmeno dire di essere stato annoverabile tra i suoi amici più intimi. Eppure, l’influenza che ha avuto su di me, il suo modo impareggiabile di maneggiare e analizzare il pop, è stata enorme e mi è davvero chiara solo ora.
Sono quattro anni da quando Labranca si è trasferito permanentemente nella dimensione immateriale, quattro anni nei quali il suo nome è stato pronunciato di rado. Certo, ho sentito diversi miei colleghi evocarlo con la solennità con cui, nelle solite interessantissime disquisizioni sullo stato dei media in Italia, si cita McLuhan o Debord (quasi nessuno lo aveva conosciuto personalmente, quasi tutti si erano avvicinati postumi alla sua opera). Però nel suo caso non mi sembra si sia innescato il consueto processo di santificazione post mortem che ha coinvolto tanti personaggi noti, artisti o intellettuali italiani, a parte i classici coccodrilli a ridosso della scomparsa che piangevano un finissimo intellettuale ingiustamente dimenticato da editoria e tv (scritti dagli stessi individui che non se lo cagavano da anni). Mi sono quindi stupito quando ho scoperto che Claudio Giunta, professore di letteratura italiana all’università di Trento e saggista, gli ha dedicato un volume edito da Il Mulino e uscito qualche mese fa: “Le alternative non esistono - La vita e le opere di Tommaso Labranca”: una sorta di biografia espansa che scandaglia la vita di un acuto interprete della cultura e della società del dopoguerra, un sociologo e antropologo che viveva sulla propria pelle la periferia e la cultura bassa rifiutando sistematicamente i leziosismi paludosi dell’intellettualismo italiano, lo snobismo dell’élite culturale che lui disprezzava ferocemente, trattando al contrario prodotti culturali bassi con una serietà e un’attenzione liberatoria ed esaltante per tantissimi, me compreso. Ho comprato il libro e ho guardato la copertina, prima di iniziare a leggerlo (sono a pagina 75): Labranca è ritratto di spalle, indossa una giacca di velluto, ha dei Rayban Wayfarer e scruta un orizzonte precluso ai nostri occhi.
Labranca intellettuale lo era davvero e in modo incontestabile, del tipo più fine ma anche più inconsueto: figlio di un gommista e di una casalinga immigrati pugliesi, aveva costruito il suo sapere in un modo iconoclasta e libero dagli ingombranti dogmi della cultura “alta”. Non apparteneva a nessun circolo accademico, non era affiliato a nessuna corrente intellettuale, a nessun partito e si muoveva in mezzo al pop e al trash con una disinvoltura che quelli freschi di Liceo Classico (come me, almeno da giovane) si sognavano. Proprio alla definizione di “trash” (“l’emulazione fallita di un modello alto”, per la quale ad esempio Little Tony era la versione trash di Elvis Presley) presente nel suo primo saggio edito da Castelvecchi, “Andy Warhol era un coatto - vivere e capire il trash”, si deve la sua fama iniziale verso la metà degli anni ’90. Nel 1994, fresco di maturità classica, lessi su un periodico musicale una breve recensione sul libro e me ne procurai una copia. Divorai il libercolo, pieno di intuizioni fulminanti. Mi colpì soprattutto un aspetto superficiale del volume, ovvero la sua superficie: l’autore, un esordiente (non bello), si era fatto ritrarre in copertina, una foto in bianco e nero in cui inforcava dei Rayban Wayfarer. Pensai: che coraggio. Non potevo sapere che quella copertina avrebbe dato una svolta determinante al mio destino professionale.
Era il 1998. Non ricordo più che periodo dell’anno fosse, ma posso dire che era passata mezzanotte ed ero in Piazza Fontana a Milano a discutere animatamente con la mia ragazza (non ricordo nemmeno il motivo della discussione). Siamo gli unici in giro. Ad un certo punto una figura in giacca nera ci passa affianco: ha il passo nervoso e spedito di chi vuole tornare a casa il più in fretta possibile, lo sguardo fisso davanti a se protetto da occhiali con la montatura spessa e i capelli cortissimi, quasi rasati. E mentre Silvia mi accusa di essere fondamentalmente uno stronzo (aveva ovviamente ragione), forse solo per avere un po’ di tregua dai suoi insulti, mi volto verso quel signore ed esclamo: “Ma tu sei Tommaso Labranca!”. Lui si ferma e si volta verso di me, gli occhi di chi fronteggia un rapinatore-stupratore seriale. “Ci conosciamo?”. No, non l’ho mai incontrato di persona, eppure l’ho riconosciuto. Del resto, la sua faccia era sulla copertina del libro d'esordio. “Ho letto il tuo libro, Andy Warhol era un coatto!”. Lui sgrana gli occhi: forse pensa che sia un pazzo (difficile dargli torto), forse è solo stupito che qualcuno che non appartenga alla sua cerchia di amici o conoscenti lo abbia fermato per strada. In ogni caso ha un tono molto gentile quando mi dice che è uscito il suo nuovo libro, “Chaltron Hescon” e mi invita alla libreria in cui ne parlerà la settimana seguente. Ci salutiamo e lui si incammina verso casa mentre io riprendo a litigare con Silvia. In libreria la settimana successiva non ci vado.
Nel 1998 sono Content Manager di Gameloft, il portale dedicato al gaming del colosso videoludico francese UBISOFT, che da pochissimo ha aperto la sua filiale in Italia. I miei non sguazzano nell’oro e quando un mio amico nota un annuncio di una grande società di videogiochi che cerca giovani anche senza esperienza per formare dei professionisti nel settore gaming mi presento al colloquio. A livello di competenze informatiche so a malapena accendere un computer (devo dire che negli anni non sono migliorato) ma parlo bene inglese e sono abbastanza sveglio per cui vengo assunto. Faccio quindi parte della delegazione che deve presenziare allo SMAU, all’epoca la più grande fiera dedicata alla tecnologia. Per una serie di fortuite coincidenze che è inutile spiegare qui finisco a parlare di videogiochi sul palco dell’allora imponente stand Infostrada, per 15 minuti. Quando scendo dal palco mi si avvicina un uomo che ha l’aspetto di un roadie dei Litfiba periodo Terremoto: basetta a scimitarra, mullet, gilet e stivali di pitone. Mi dice: “Sto cercando volti nuovi per un programma di MTV sulle nuove tecnologie. Mi sembri un discreto pirla. Hai voglia di venire al casting la settimana prossima?”. Più per curiosità che per altro decido di andarci: si tratta di un ufficio in un elegante palazzo di Viale Montenero. Vengo fatto accomodare in una sala d’attesa che a me, uno che viene da Corvetto, sembra Pret-a-Porter di Altman: ci sono ovunque ragazzi e ragazze bellissime, capelli fluenti, corpi perfetti, fisici slanciati, styling impeccabili. Poi io, Danny DeVito nello spogliatoio assieme ai Chicago Bulls del 1997. A meno che il casting director non sia Stevie Wonder o Jose Feliciano, è assolutamente impossibile che venga scelto. Ma sono tranquillo: in fondo ho un lavoro, sono iscritto all’Università e non sono troppo indietro con gli esami, questa per me sarà semplicemente una giornata diversa dal solito. Quando è il mio turno (sono rimasto l’ultimo) entro nella stanza dove c’è la telecamera e dietro l’operatore vedo la persona che ho incontrato per strada circa un mese prima: Tommaso Labranca.
Per qualche assurdo disegno del destino lui si ricorda di quell’imberbe e magro (allora ero entrambe le cose) ragazzo che lo ha fermato per la strada e mi dice affabilmente che sta lavorando a un programma nuovo per il quale cerca giovani conduttori, mi chiede quindi di presentarmi alla telecamera. Io allora, forse rilassato dal fatto che non ho nulla da perdere, inizio a dire una cosa tipo “Buongiorno, sono Mannucci e non ho nessuna qualità specifica (a parte un discreto strabismo ed essere totalmente incapace negli sport): non sono bello, non sono intelligente, non ho conoscenze importanti. Oggi sono qui perché avevo una giornata libera. E bisogno di soldi”. Ridono tutti, Labranca compreso. Quando poi faccio un riferimento ad una battuta di Fantozzi, una mia ossessione da sempre, si illumina: della saga del ragioniere più sfigato della galassia Tommaso è uno dei massimi esegeti e finiamo per parlarne per un’ora, quando lo accompagno fuori dagli uffici in un bar. Probabilmente fu solo un’impressione mia, ma mi sembrò che stesse aspettando uno come me (sgraziato, logorroico, allegro nella sua proletarietà) da tutto il giorno. In ogni caso venni miracolosamente scelto per girare il pilota di questo programma per MTV, assieme a due belle fanciulle, una bionda e una mulatta. A me sembrava impossibile: quelli erano gli anni in cui l’emittente musicale era al suo Zenith. Presentavano ragazzi belli, simpatici (almeno a guardarli in video) e intelligenti come Andrea Pezzi, Marco Maccarini, Giorgia Surina, Victoria Cabello… come potevo entrarci anche io? Infatti, non ci entrai: il pilota si arenò e venne data luce verde al progetto solo tre anni dopo, quando andò in onda col titolo di NU EDGE per poche puntate e con le sole ragazze a condurre. Nel frattempo, però, Tommaso aveva visto in me una risorsa, un Sancho Panza fedele e sgangherato ma dotato di qualche contenuto. Pur non avendo mai lavorato in tv prima d’ora mi chiama e mi propone di fare il redattore in un nuovo programma per la neonata emittente generalista sorta sulle ceneri di Telemontecarlo, LA7. Mi licenzio subito da Ubisoft: la prospettiva di lavorare con Tommaso Labranca in un magazine di costume e società che abbia un taglio ironico mi sembra infinitamente più stimolante e divertente che stare davanti a un computer a scrivere recensioni di Rayman o Crash Bandicoot. Il programma, condotto da Tamara Donà e si chiama Trend, e credo si potesse definire come la risposta più autoironica e proletaria di Target, condotto da Gaia de Laurentiis su Italia 1. Tommaso scrive i lanci e io, assieme a un ragazzo in gamba di nome Antonio, mi occupo di ricerche, faccio telefonate, vado a girare i servizi in giro per l’Italia e sto in montaggio per finalizzarli. È la mia prima esperienza in ambito televisivo e mi sembra tutto bellissimo, anche quando devo andare a girare un servizio su una toelettatrice di cani a Napoli in giornata (stavamo a Milano). Io e Tommaso parliamo tanto in quel periodo, scoprendo di avere molte cose in comune: non vengo dall’hinterland ma sono di Corvetto, che non è esattamente un quartierino à la page, soprattutto in quegli anni; pur essendo più giovane di lui non abbiamo lo stesso background musicale ma condividiamo l’amore per una certa new wave elegante (amava David Sylvian e odiava Morrissey: il modo in cui lo stroncava mi faceva letteralmente crepare dalle risate); ma soprattutto abbiamo la stessa fascinazione quasi morbosa per tutti quei materiali culturali prodotti dalla periferia, come le televendite: quando gli dissi, come confessando un terribile delitto di cui mi ero macchiato, che spesso passavo le notti in trance ipnotica davanti al televisore sintonizzato su canali commerciali locali quasi si commosse. Non mi perdevo mai Tv Elefante-Telemarket, dove Francesco Boni cercava di rifilarci croste fotocopiate attribuite a Mario Schifano, conoscevo perfettamente tutto l’inventario di Sergio Baracco, il patron della migliore gioielleria di Valenza Po (“rubino burman sangue di piccione!”), sapevo a memoria i numeri che il Maestro Do Nascimento aveva dato nella diretta la sera precedente con Vanna Marchi, assistevo rapito agli insulti in diretta che gli spettatori vomitavano su Nascia Prandi, cattivissima cartomante over 80 con lo studio in Viale Monza. Assieme alle cose belle però avevo iniziato a notarne qualcuna brutta: Tommaso era sempre più spesso schiavo di sbalzi d’umore vertiginosi; alcuni giorni sembrava altrove, chiuso in un doloroso silenzio a me impenetrabile; trattava spesso male collaboratori che, ai miei occhi, non avevano fatto nulla di male. In quel periodo Labranca sta ancora capitalizzando il successo della sua breve ma fruttuosa esperienza da autore per Fabio Fazio per il programma cult Anima Mia, in cui va anche in video in qualità di teorico del trash (etichetta che ovviamente detestava e che gli resterà appiccicata fino alla morte). La sua era ancora una firma “importante” nel circuito televisivo (un ambiente infinitamente più piccolo di quello che immaginavo) ma il programmone a cui stava lavorando, il FABSHOW, che avrebbe dovuto essere il debutto sfarzoso di Fazio su LA7, era sfumato (da qualche parte ho ancora una cartolina promozionale che mi regalò dicendo “è tipo il Gronchi Rosa”) e Fazio era tornato in Rai senza di lui.
Le sue assenze ingiustificate in redazione si fanno più frequenti. Se chiamato, non risponde al telefono. Io e Antonio, l’altro ragazzo, spesso scriviamo i lanci in sua vece per riuscire comunque a girare le puntate. La produttrice del programma, Roberta, se n’è già accorta e un bel giorno mi si avvicina e mi dice, più o meno: “So che scrivi spesso i testi al posto di Tommaso. Ma lui se n’è andato, ha lasciato il programma. Che ne dici di scriverli al posto suo ufficialmente?”. Da allora fino ad oggi, in modo del tutto fortuito, questo è ciò che faccio per vivere. È paradossalmente l’assenza di Labranca a determinare il mio ingresso nel mondo della tv in qualità di autore.
Da quel momento in poi le mie frequentazioni con lui si diradano anche se continuiamo a sentirci e a frequentarci sporadicamente. Vado agli happening-reading che organizza per la sua ristretta cerchia di accoliti al Dynamo, un locale in Piazza Greco. Al termine di uno di questi mi dice di essere un po’ preoccupato perché senza lavoro. Io ho da poco iniziato a scrivere un programma per RETEA, “Music Zoo”, un contenitore-circo Barnum postatomico di gruppi demenziali che non avrebbero mai avuto nella maggior parte dei casi una vetrina televisiva girato con un budget rasoterra. Anche come segno di gratitudine nei suoi confronti, mi viene l’idea di coinvolgerlo, in qualità di “etnomusicologo” e di fargli fare l’analisi semantica del pezzo appena sentito (quasi sempre raccapricciante) con la stessa perizia accademica e seria con cui Simon Reynolds affrontava il post-punk. Lui è inaspettatamente entusiasta. Organizziamo un incontro con la produzione, si mettono d’accordo per i soldi e tutto sembra andare per il meglio. Il giorno delle registrazioni gli scrivo l’indirizzo dello studio, c’è anche una macchina che lo verrà a prendere a Cascina Gobba per portarlo in Viale Spagna a Cologno Monzese. Lui risponde “ok”. Poi però non arriva. Non risponde alle ripetute chiamate della produzione e il programma inizia (e poi finisce) senza di lui. Sono tutti incazzati. Il produttore esecutivo sbraita: “Non voglio più sentirlo nominare”. Sono dispiaciuto e mi sento responsabile per averlo coinvolto. Riesco a parlarci solo il giorno dopo, quando ringhiando mi fa: “Ho aspettato tutto il giorno che mi mandassi una macchina… sono rimasto per ore ad aspettarla a Cascina Gobba!”. Sono sconvolto ma riesco a rispondergli: “Tommaso, perdonami ma non è vero. La macchina è arrivata e ha aspettato lì per un’ora. Ti abbiamo chiamato tutti al telefono, ma non hai mai risposto”. E questa, in sostanza, è stata la fine del mio rapporto con lui.
Da due o tre telefonate alla settimana si passò a zero. Nessuno dei miei numerosi messaggi ricevette risposta. Ero triste e scioccato. Però, anche se ero giovane e non sapevo un cazzo di niente, avevo notato sbocciare il lui i semi dell’invidia da qualche tempo. Una mattina era particolarmente incazzato, la mascella digrignata ritmicamente e gli chiesi se stava bene: lui mi attaccò una pippa su un tale Matteo B. Bianchi, uno scrittore, parlandone malissimo. Il nome non mi era del tutto nuovo e quando tornai a casa capii perché: lui aveva tradotto e scelto gli aforismi di Andy Warhol che componevano la raccolta per la collana “millelire” “La cosa più bella di Firenze è McDonald’s”. Mi era sembrato un bel lavoretto. Nel sopracitato libro Le Alternative Giunta ha incontrato alcuni suoi vecchi amici, tra cui B. Bianchi, che ricorda: “È allora che è sparito. Sparito, alla lettera. Da due-tre telefonate al giorno siamo passati a zero telefonate, da vedersi sempre a non vedersi più, senza spiegazioni. […] Poi sono cominciate le voci. Vengo a sapere che parla male di me a tutti quelli che incontra, che si pubblica un’antologia di nuovi scrittori e lui sconsiglia di chiamarmi, che cercano un autore per la trasmissione Cocktail d’amore e lui mette il veto sul mio nome. Stupito? Un po’, non troppo, perché mi ricordavo che questo era proprio il tipo di atteggiamento che aveva parlando degli altri con me, quando ancora ci frequentavamo. […] Il successo degli altri lo rattristava, gli altri dovevano farsi da parte perché lui potesse splendere di luce più viva…”.
Ho incontrato B. Bianchi un paio di volte e mi è sembrato gioviale e simpatico. Ma al di là di tutto, leggendo questa testimonianza mi immedesimavo anche io, con la non indifferente eccezione che non ero uno scrittore e non avevo successo. Ma questo a Tommaso non importava. Scrive Giunta: “Portavi tuo figlio a Mirabilandia anziché andare alla presentazione di “Tipografia Helvetica”? Lo deludevi. Non disdicevi il contratto con la compagnia telefonica con cui lui aveva avuto delle grane? Lo deludevi. Andavi a ritirare un premio letterario anziché restare a casa a ridere di quegli idioti in completo scuro? Lo deludevi”.
Alla fine, tutti lo deludemmo. Anche una mezza sega come me. Forse la mia colpa fu il fatto di continuare a lavorare in un ambiente, quello televisivo, che lo aveva marginalizzato (sebbene in larga parte per sua volontà). Non pensai più a lui fino alla mattina del 29 agosto 2016. Non andai al funerale, ero in trasferta a girare un programma: qualcuno mi disse che c’era poca gente tra cui Andrea Pinketts, un altro grande scrittore scomparso anzitempo con cui ho lavorato, che commentò laconico: “Era meglio se non venivo”. La sua scomparsa mi ha rattristato non tanto perché se ne era andato (ormai era lontano da quasi chiunque) quanto per quel senso di solitudine che evocano in me le circostanze della sua morte.
Recentemente ho ripreso perversamente a guardare, di notte, le televendite di Telemarket che un santo, un apostolo, tale Sir Daniel, ha caricato su Youtube. Sotto il video di uno dei miei anchorman preferiti, il mitologico Alessandro Orlando che da fondo a tutta la sua arte oratoria per piazzare i soliti quadri inaffrontabili, c’è un commento di Labranca, datato 4 anni fa. Leggerlo mi ha rattristato ma anche fatto sorridere.
“Quando c'era Orlando, quando c'era il ‘Crosta Show’. Una serie di opere impresentabili a prezzi sempre più bassi. Ricordo certi disegni di una ignota pittrice di gatti venduti a 70 euro con l'umiliante specificazione: "Solo la cornice costa 70 euro!!!" Oggi i miei ritorni a casa sono tristi. Non ci sono più i "Crosta Show", non c'è più Orlando. C'è sempre quel maledetto Tony con i suoi stramaledettissimi tappeti. "E io odio i tappeti”.
Ciao Tommaso!