Siamo nel cuore pulsante della stagione in cui gli impegni lavorativi si diradano come i capelli sulla testa di Massimo Boldi, in cui non solo noi, ma anche il nostro abbigliamento più convenzionale va in ferie lasciando il posto a infradito, canotte, costumi, marsupi e cappellini, in cui le inibizioni si fanno da parte e scatta la voglia di ballare un reggae in spiaggia (io personalmente sarei più felice di sminare un killing field cambogiano) in cui facciamo code in autostrada, negli aeroporti, ai traghetti, sudiamo come facoceri feriti mortalmente al costato sotto un sole impietoso mentre come rabdomanti cerchiamo un lettino e un ombrellone libero su una spiaggia che sembra più una gigantesca griglia dove una variegata umanità cuoce lentamente.
Agosto è il periodo in cui si legittimano pietanze che nel resto dell’anno verrebbero considerate oltraggio alla costituzione: le terrificanti insalate di riso (con i würstel crudi tagliati a rondelle che da piccolissimo mi fecero subito capire che il mondo poteva essere un luogo duro e ostile), le tristissime paste fredde, il fottuto prosciutto e melone (incredibilmente lo si trova ancora nel menù di qualche ristorante che probabilmente non vanta fuoriclasse nella propria brigata). È anche il periodo dei tormentoni estivi, instant songs che garantiscono la sopravvivenza a parecchi cantanti nel resto dell’anno grazie a un ritmo calypso-reggaetton che fa subito venire voglia di sottoporsi al waterboarding col mojito e che hanno tutte le stesse coordinate semantiche: trombate appassionate sulla spiaggia, sapore di salsedine, divertimento sfrenato e peccaminoso su una scogliera al chiaro di luna.
Per tanti di noi questo però è anche il momento ideale per recuperare cose lasciate indietro dagli implacabili ritmi quotidiani del resto dell’anno: libri, dischi, film e varia tv. E poco tempo fa ho appunto recuperato due reperti di quella che da molti è considerata una sorta di età dell’oro della televisione italiana: gli anni ’70. In questa decade la tv di stato e, di riflesso, quella della svizzera italiana, propongono prodotti di qualità che riflettono il cambiamento sociale messo in moto dalla radicalità degli anni ’60 e non ancora fagocitata dall’esuberante edonismo delle tv private dell’era Berlusconi. È una televisione indubbiamente colta ma che ha una dichiarata missione pedagogica, caratterizzata da una certa austerità formale tipica dell’apparato statale, ma anche una grande carica innovativa: in questo periodo la tv si impone come un medium indipendente e caratterizzato da un proprio specifico linguaggio. Guardarla oggi è un’esperienza affascinante e meravigliosa ancorché triste: meravigliosa in quanto densa di contenuti interessanti, triste perché suddetti contenuti sono sostenuti da una dialettica, da una civiltà e un’eleganza che oggi non si trova probabilmente più manco in un’aula della Normale di Pisa. Intendiamoci: odio la nostalgia con tutte le mie forze e considero Temptation Island grande intrattenimento televisivo, però fa un po’ di tristezza ricordarsi che quando eri piccolo in tv c’era Enzo Tortora e oggi, se ti va bene, c’è Giletti.
Parlando di Tortora, il primo programma che ho visto non lo conoscevo: durante le mie peregrinazioni notturne su YouTube mi imbatto in un video dal titolo “Paolo Villaggio intervistato da Enzo Tortora e psicoanalizzato da Fausto Antonini”. Clicco play più velocemente di un 14enne davanti a YouPorn. Si tratta di una puntata di “Si Rilassi, Prego”, programma della RSI (radiotelevisione svizzera italiana) dove Tortora, all’epoca forse il più grande professionista televisivo italiano, lavorava a seguito dell’esilio di cui era stato vittima in Rai. I suoi rapporti con la Rai erano già difficili dopo il suo primo licenziamento, avvenuto per aver ospitato Alighiero Noschese in una trasmissione in cui imitava Amintore Fanfani. Rientrato nei ranghi, Tortora conduce trasmissioni di grande successo come la Domenica Sportiva ma diventa sempre più “insofferente” nei confronti dell’apparato burocratico di Viale Mazzini, tanto da definirlo in un’intervista al settimanale Oggi “un jet supersonico pilotato da un gruppo di boy scout che litigano ai comandi, rischiando di mandarlo a schiantarsi sulle montagne”. Il licenziamento è immediato ma il nostro non resta disoccupato: per la televisione svizzera partorisce questo format nel quale un personaggio noto viene invitato appunto a rilassarsi per essere intervistato dallo stesso Tortora e psicanalizzato dallo specialista Fausto Antonini. In uno studio dove spiccano scenografie che ricordano il labirinto della Masone di Franco Maria Ricci e l’eleganza delle sedute Le Corbusier, Villaggio è sdraiato e confessa paure e idiosincrasie in modo divertito ma evidenziando anche un certo naturale disagio. E’ il 1974: all’epoca ha 42 anni, Fantozzi non è ancora approdato al grande schermo diventando uno dei più incredibili e longevi successi del nostro cinema ma è appena uscito Il Secondo Tragico Libro di Fantozzi, successore del primo fortunato bestseller (210 mila copie) che si appresta a battere ogni record di vendita: Villaggio dichiara divertito di aver ricevuto una coltellata da Bevilacqua e di aver battuto, “purtroppo”, anche La Storia di Elsa Morante, che lui definisce “il romanzo del secolo”. Tortora e Villaggio si conoscono già da anni: entrambi sono nati e cresciuti a Genova e il giornalista, ben prima di diventare uno dei beniamini della tv di stato italiana, aveva collaborato in veste di autore a diversi spettacoli del comico allora emergente. Qui Tortora incalza il suo ospite con una studiata scostanza che ricorda la mitologica scena di Fracchia La Belva Umana in cui il capufficio Gianni Agus convoca il sottoposto Fracchia (curiosamente anche qui Villaggio viene fatto accomodare su una seduta di design, la poltrona sacco di Piero Gatti) per fargli assaggiare un nuovo biscotto, il sempliciotto. I tempi, le domande di Tortora e le risposte di Villaggio sono perfette e fanno assomigliare questa tv alla miglior fiction. Lo consiglio caldamente a tutti gli amanti di Tortora, di Villaggio, di Fantozzi, della psicanalisi e dei contenuti intelligenti
Il secondo reperto è forse più noto (ne avevo visto qualche frammento forse su Blob) ed è successivo di qualche anno: è il 1977 e sulla seconda rete nazionale debutta un nuovo programma che durerà solo una stagione ma ci consegna un epico esercizio di stile televisivo per certi versi tuttora ineguagliato. Match - domande incrociate, ideato da un autore della caratura di Arnaldo Bagnasco, si basa su un presupposto semplice quanto ingegnoso: mettere a confronto due personalità della cultura con idee opposte e divergenti e sviluppare in riflessioni le scintille così ottenute. A moderare (e spesso istigare) i protagonisti dello scontro c’è Alberto Arbasino. Già questa è una cosa che mi ha sconvolto: laddove la tv pubblica sceglieva come conduttore uno dei massimi scrittori italiani del secondo novecento (recentemente scomparso all’età di 90 anni) oggi ci sarebbe, se va bene, Tiberio Timperi. La puntata che ho visto mette a confronto due cineasti diametralmente opposti: Mario Monicelli, stella polare della commedia all’italiana che già allora poteva vantare una carriera impressionante con titoli come I Soliti Ignoti, La Grande Guerra, L’Armata Brancaleone, Amici Miei e l’ultimo film fino a quel momento, Un Borghese Piccolo Piccolo (che ricordo di aver visto da ragazzino per il ciclo I Bellissimi di Rete4 e mi sconvolse, perché il personaggio di Sordi si prodiga per l’unico figlio come mio padre faceva per me). Nanni Moretti, giovanissimo studente classicista fresco della popolarità ottenuta con il suo primo fulminante lungometraggio, Io Sono Un Autarchico. Già esteticamente i due non potrebbero essere più diversi: Monicelli è serio, elegante nella sua camicia a righe e cravatta bordeaux con giacca verde, sembra una crasi tra il cugino fortunato di Paperino, Gastone, e il fratello aristocratico di Nino Manfredi; Moretti pare invece appena uscito dalla facoltà di Lettere e Filosofia, maglione, occhiale e capello lungo. Si guarda in giro, si spalma sulla sedia e ha il beffardo sorriso di chi irride i cordoni di polizia durante i cortei. Nanni qui ha solo 24 anni ma è ben consapevole del ruolo che Arbasino, convocandolo, ha pensato per lui, e ci si cala con entusiasmo. Parte subito attaccando il maestro con una provocazione: “Perchè questa vostra angosciosa ricerca di successo? Paura di deludere il pubblico?”. Moretti usa il “voi” perché si sta rivolgendo non solo a Monicelli ma a tutta la vecchia scuola: lui rappresenta l’iconoclastia del nuovo, usa un linguaggio fresco, non cerca di soddisfare il pubblico quanto piuttosto se stesso, il successo commerciale non gli interessa (perlomeno non ancora). Monicelli risponde con franchezza che cerca il successo per vanità e per portare la sua idea di cinema al maggior numero di gente possibile. Moretti però insiste: la vecchia scuola prevede film che abbiano dei topoi ricorrenti, uno stile consolidato e digeribile che sottovaluta il pubblico e sembra incapace di fare pellicole senza divi del calibro di Sordi, Manfredi, Gassman, contrariamente a lui, che ha realizzato la sua opera prima con attori amici totalmente sconosciuti. Monicelli incassa signorilmente anche quando la discussione si sposta sui costi di un film: il suo ultimo (Un Borghese Piccolo Piccolo) è costato, dice, 700/800 milioni di Lire. Moretti non ci crede, e sostiene che sia molto più difficile fare un film come il suo, che è costato un centinaio scarso di milioni e per il quale ha dovuto scontrarsi contro una distribuzione impermeabile al “nuovo”.
È interessante notare come anche il pubblico del programma sia composto da addetti ai lavori. A questo punto un corpulento signore in cardigan alza la mano e interviene a sostegno del maestro: è Leo Benvenuti, uno dei più grandi sceneggiatori italiani (la saga di Fantozzi, Amici Miei, i film di Verdone tra gli altri) che percula paternalisticamente Nanni smentendolo sul fatto che le storie dei film “major” siano sempre tutte uguali. A stupirmi più di tutto comunque è vedere uno che fuma in uno studio televisivo. Moretti ride e continua sul solco tracciato all’inizio, criticando i grandi vecchi di cui Monicelli è esponente illustre per non aver voluto allevare dei successori, per aver stabilito delle “leggi” cinematografiche che il pubblico deve seguire e per dare la colpa all’industria o ai critici se un film va male: lui darebbe la colpa solo a se stesso. Segue una interessantissima digressione del maestro sulla new Hollywood, rea di essere passata da film a basso budget (di registi giovani e cresciuti con la tv) fortemente autorali a mastodontici kolossal che ubbidiscono a leggi di mercato, Monicelli parla dell’industria cinematografica statunitense come di un “cadavere che sta in piedi”, affermazione accolta con ironia in studio ma che si rivelerà profetica alla luce del clamoroso fallimento commerciale de I Cancelli del Cielo che nel 1980 metterà fine alla United Artists, alla carriera di Michael Cimino e anche alla fine della Nuova Holliwood. A quel punto Mario, da bad motherfucker quale era, si dimostra nei confronti del giovane Nanni (“un giovane quando comincia a fare cinema in Italia deve essere presuntuoso per forza perché il cinema italiano è brutto”) una figura paterna ma davvero poco accomodante quando spara la sua sentenza: «Sei un buon regista che si è fatto una grande pubblicità […] sei stato il press agent più straordinario che ci sia da quarant’anni ad oggi. Il tuo film […] che ha visto pochissima gente, è grazioso, ma ti assicuro che è molto meno di quello che tu creda». E arriva al momento topico quando sostiene che Io Sono Un Autarchico sia una commedia all’italiana: “cosa credi, che non lo sia? Non so cosa tu stia girando adesso (Ecce Bombo, nda) ma quando fra una settimana daranno in tv il tuo film, tutti vedranno che quello che hai fatto è esattamente una commedia all’italiana”. Praticamente Darth Vader che ne l’Impero Colpisce Ancora, dopo il duello col giovane Luke gli confessa: io sono tuo padre.
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Oltre a testimoniare il livello straordinario dei nostri intellettuali di allora, a colpirmi di più è il fatto che lo scontro acceso fra generazioni diverse non scivola mai nel litigio furioso, ottuso e degradante a cui la televisione di oggi ci ha tristemente abituato. Sto proprio pensando a questo quando sul telefonino mi arriva una notifica da Netflix: Dark Polo Gang, La Serie è ora disponibile.