Parlare di Bohemian Rhapsody, significa parlare di una canzone che è definizione stessa di mito musicale. Il brano dei Queen ha dato il titolo al film di Bryan Singer del 2018 che ha incassato quasi 1 miliardo di dollari al botteghino, diventando il più grande successo di sempre per un biopic musicale, oltre ad aver vinto 2 Golden Globe e 4 Oscar, tra cui quello di Miglior Attore Protagonista per Rami Malek - che ha impersonato Freddie Mercury nella pellicola.
Il film è stato prodotto fra gli altri da Jim Beach - il loro produttore discografico dalla fine degli anni ‘70 - ed è stato supervisionato dagli stessi Brian May e Roger Taylor, rispettivamente chitarrista e batterista dei Queen.
È una ricostruzione della prima parte della storia della band, da quando si formarono - originariamente con il nome di Smile, band in cui militavano May e Taylor - all’incontro con Freddie, fino all’ascesa, alla fama, alla pausa della band durante la quale Freddie intraprese anche una breve ma intensa carriera solista, e narra la loro vita fino all’ apparizione al Live Aid, che gli diede ancor più visibilità e ne esaltò le brillanti performance dal vivo.
Bohemian come fuori dagli schemi. Rhapsody come fantasia, ma anche come un brano dalla forma irregolare e pieno di sentimenti molto differenti
La pellicola ha avuto una gestazione tormentata: un biopic sui Queen fu annunciato nel 2010 ma ha visto la luce solo 8 anni dopo; Bryan Singer è stato sostituito come regista - pare per problemi familiari o di salute, che avevano portato a parecchie sue assenze sul set - da Dexter Fletcher; Rami Malek stesso è in realtà in qualche modo il sostituto di Sacha Baron Cohen che avrebbe dovuto essere Freddie Mercury in una pellicola precedente, poi naufragata, pare per dissapori con Brian May e Roger Taylor in quanto troppo oltraggioso secondo loro. Il film ha ricevuto anche parecchie critiche, soprattutto relative alla (mancata) ricostruzione di alcuni aspetti della vita e dei sentimenti di Freddie al di fuori del palco, a qualche errore storico, all’esagerazione - quasi caricaturale - di alcuni lati del suo carattere o delle sue posture e la mancanza di approfondimento di altri, oltre al differente apporto “reale” degli altri membri della band rispetto al peso di Mercury nella composizione dei brani e nelle scelte musicali. Il fatto che gli stessi componenti dei Queen abbiano preso parte alla lavorazione può ovviamente aver influito su tutto questo.
Ma oltre le critiche e i dubbi resta magistrale l’interpretazione di Malek, che - sebbene la ricostruzione della dentatura di Mercury e la sua mancata somiglianza fisica abbiano convinto poco - è davvero il motore del film e in più d'una occasione si fonde perfettamente con il Freddy originale.
Uno dei momenti migliori è proprio la ricostruzione - a dir poco impressionante - dell’intero show di 21 minuti fatto al Live Aid nel 1985: il concerto è stato girato per intero, un’unica scena senza alcun taglio (arrivato solo in fase di montaggio), e riproduce in maniera impeccabile l’esibizione che fece la band (il live completo girato per il film è visibile nell’edizione digitale del film stesso, disponibile in DVD e Blu-Ray, nda).
Perchè Bohemian Rhapsody?
Uno dei momenti salienti del concerto è l’esecuzione di Bohemian Rhapsody, il brano che meglio rappresentò la svolta della band. Fu una canzone davvero atipica per quei tempi, monumentale e articolata: durava sei minuti, quasi il doppio dei singoli pop che giravano in radio, ed era totalmente fuori dagli schemi, tanto che un manager della EMI per poterla mandare on air propose di farne una versione tagliata.
Ovviamente i Queen rifiutarono, e anzi scelsero proprio quello come singolo; Freddie fece sentire la canzone a Kenny Everett, dj della BBC, che pare disse “potrebbe durare anche mezz’ora e resterebbe comunque la numero uno per secoli”. Non solo: sempre Freddie gli diede in segreto una copia prima ancora dell’uscita del singolo, con la (finta) promessa di non farla sentire, e Kenny la passò in radio quattordici volte in due giorni. Risultato: rimase prima in classifica in Gran Bretagna per 9 settimane, è ad oggi uno dei singoli rock più venduti di sempre, è stata la prima canzone scritta prima degli anni ‘90 il cui video ha superato un miliardo di visualizzazioni su Youtube, ed è stata iscritta nel Guinness dei Primati come la miglior canzone di tutti i tempi.
Era già nella testa di Mercury probabilmente molto prima della registrazione. Brian May racconta di come fosse una sorta di idea fissa per lui: Freddie arrivava in studio già con una moltitudine di fogli e foglietti, come dei post-it, e li metteva tutti sul pianoforte. E mentre lo suonava con forza, eseguiva questa canzone piena di buchi in cui spiegava come sarebbe arrivato questo e quel pezzo, questo e quel coro, la parte operistica e il solo. Aveva elaborato tutte le armonie e gli arrangiamenti nella sua testa, a differenza di molti altri brani dei Queen che nascevano in maniera collaborativa. Ci vollero ben tre settimane per registrarla, e centinaia di sovraincisioni (pare quasi duecento).
È stata intitolata “Bohemian Rhapsody” perchè “Bohemian” è un modo di indicare una persona fuori dagli schemi, uno spirito libero, un artista, mentre “Rhapsody” indica sia una fantasia - o una visione futura - che musicalmente un brano dalla forma irregolare e pieno di sentimenti molto differenti.
Con questo titolo evidentemente Freddy identificava se stesso e i sogni per il suo futuro, valori che sono la forza stessa di questa canzone, ancora così potente dopo 45 anni: oltre ad aver spinto al massimo la sperimentazione compositiva e l’arrangiamento in studio, esprime appieno l’intensità della personalità e della vita di Mercury. Non era uscita per caso, Freddy aveva fatto delle ricerche, ma era soprattutto un mix di suggestioni, cose dette e non dette, come se a parlare fossero i suoi pensieri stessi, in libertà, il tutto con un collante operistico: a colpire era proprio l’interpretazione del brano, perchè non c’era mai stato un performer come Freddy Mercury prima di Freddy Mercury.
Parlando di Bohemian Rhapsody, il cantante dei Queen si rifiutava - non a caso - di spiegarne il significato, dicendo che ciascuno poteva ascoltarla, rifletterci e darne una sua interpretazione facendosi ispirare da ciò che la canzone gli comunicava.
Il livello base del testo parla di un ragazzo che ha ucciso un uomo, e come nel Faust, ha venduto la sua anima al diavolo, di cui ora attende la punizione. Come in una vera “rapsodia”, ci sono momenti in cui prevale la tristezza e il rimpianto, altri in cui emerge il contrasto interiore e una nuova consapevolezza di sé.
Le tesi più accreditate sul significato del testo sono due: nella prima i riferimenti vanno indietro nel tempo, alla vita coi genitori e soprattutto col padre, religioso e integralista, che non accettava la via scelta da Mercury. Non a caso nella canzone ci sono parecchi riferimenti allo Zoroastrismo - la religione che seguiva la sua famiglia, basata proprio sull’eterna lotta fra bene e male.
Da qui la richiesta di permesso alla madre (“Mamma mia lasciami andare”) , a cui stava dicendo addio, perchè ormai la sua anima era perduta. Molte di queste cose, ancor più che nel film, sono raccontate nel documentario “Freddie Mercury, the Untold Story” - disponibile all'interno del box set “Freddie Mercury Solo Collection” - davvero ben realizzato, che ne analizza la vita sia come artista che come uomo.
L’ipotesi più convincente parla invece della svolta di Freddy e della sua nuova sessualità. La persona uccisa è il “vecchio” Freddie, è Mercury che uccide se stesso e chiede alla compagna di allora, Mary Austin (a cui sarebbe riferita la richiesta “Mamma mia let me go”), il permesso di lasciarla perchè innamorato di qualcun altro, e riappropriarsi della propria vita. Non senza tormento: si dice più avanti che la sua anima ormai è venduta a Belzebù (“Beelzebub has a devil put aside for me”), in una lotta fra i demoni interiori di Freddy.
Un turbinio di emozioni e riferimenti che hanno fatto scervellare i critici sui significati più reconditi del testo, quasi come in un canto dantesco: richiami arabi (Bismillah è la citazione in arabo de “In nome di Dio”, contenuta nel Corano), o astronomici, come il “Galileo Figaro Magnifico” (Galileo, osservatore del cielo, e primo osservatore al telescopio di Mercurio, come il “nuovo” cognome di Freddy), e soprattutto religiosi, dato che “Galileo” era anche il nome dato a Gesù, a cui affidare le proprie speranze di salvezza.
In tal senso quella parte del testo sarebbe la storpiatura del latino “Galileo figuro magnifico”, una sorta di invocazione a Gesù; dopo la quale però il protagonista si convince che Dio non si preoccupi di lui (“nobody loves me”) e si sente quindi perso. Non solo: il “Galileo” ripetuto cinque volte sarebbe una citazione del “Figaro” di Rossini, oltre al fatto che Galileo Galilei fu perseguitato per le sue convinzioni, fu giudicato “scandaloso ed eretico”. così come si sentiva Mercury, che probabilmente identificava in lui un riferimento a se stesso. Tutta la canzone è pervasa di richiami anche complessi, dal Vecchio Testamento all’opera, alla Commedia dell’Arte, a cui appartiene il personaggio di Scaramuccia.
La complessità della parte musicale non è da meno: quasi duecento sovraincisioni (la band disse che alla fine delle registrazioni si vedeva attraverso il nastro talmente era usurato), la maggior parte delle quali sui cori, motivo per cui la versione live era praticamente irriproducibile se non con una base registrata o “tagliando” il momento operistico centrale.
Come se non bastasse, il tutto senza un vero ritornello: è un mix quasi cervellotico di generi musicali molto diversi, e la prima vera fusione dell’opera come forma d’arte con il rock, in tutto il suo sfarzo. La canzone può essere suddivisa in cinque parti: un’intro “a cappella”, una ballata iniziale, un momento operistico, una parte hard-rock e una coda più riflessiva, che si chiude con il gong finale.
Brian May costruì una chitarra elettrica interamente a mano per ottenere uno strumento più adatto alle proprie esigenze
Se questa nuova forma compositiva era nata quasi un decennio prima con i Beatles di “A Day in The Life”, e con le tecniche di registrazione di “Good Vibrations” dei Beach Boys, i Queen la spinsero ben oltre i limiti.
Ironia della sorte, anche il video della canzone divenne virale. Fu girato soprattutto perché non volevano partecipare allo show britannico “Top of the Pops”, e impiegarono solo quattro ore per girarlo.
È considerato il primo “video musicale” della storia in senso stretto, dato che fu girato su videotape a differenza degli altri che utilizzavano la pellicola dei film. Il regista era Bruce Gowers, uno dei pochi ad avere esperienza di video musicali avendo lavorato anche con i Beatles in alcuni clip promozionali. Ne venne fuori un video piuttosto semplice, dominato dai volti dei membri della band mentre cantano, ripresa dalla copertina dell’album Queen II, che a sua volta rende omaggio ad un’altra “diva” come Freddie: la posa di Mercury è una citazione di Marlene Dietrich in una pubblicità per il film Shanghai Express (pare che il fotografo, Mick Rock, disse al leader dei Queen “potresti essere Marlene Dietrich! Che ne pensi?”; la risposta fu ovviamente un grande sì)
Eppure, come la canzone stessa, il video ebbe un successo incredibile, probabilmente per quel suo sembrare futuristico, innovativo e high-tech per l’epoca (furono usati effetti come un prisma posto davanti alle lenti della telecamera, o una telecamera che punta un monitor per creare effetti di “coda”) tanto da diventare un tormentone proseguito negli anni ‘80, in cui contribuì all’amore dei fan per i video musicali e per MTV.
Una nuova dimensione: A Night at the Opera
Bohemian Rhapsody è contenuta nel quarto album dei Queen, A Night at the Opera, pubblicato tre settimane dopo il singolo, nel Novembre del 1975. L’album deve il nome ad un film omonimo dei Fratelli Marx degli anni ‘30: Roger Taylor ha dichiarato che fu un caso perché, essendo loro fan, durante le registrazioni in studio stavano guardando il film, quando intuirono che titolo e mood si adattavano perfettamente.
Replicarono con l’album successivo, A Day at the Races, che uscì un anno dopo, e che con A Night at the Opera condivide anche la copertina (bianca il primo, nera il secondo, con simbolo e logo dei Queen - disegnati da Freddy - al centro).
A Groucho Marx la cosa piacque, li invitò anche a cantare da lui e divenne loro caro amico.
È un album sperimentale e diverso dal passato: i Queen avevano ottenuto completa libertà artistica avendo avuto un buon successo con il precedente album Sheer Heart Attack. Freddy non si fece sfuggire l’occasione, tanto che le cronache riportano di questo come l’album più costoso mai prodotto fino ad allora, registrato in oltre quattro mesi di lavoro.
Il progetto A Night at the Opera fondeva perfettamente l’ambizione e i sogni di Freddie con il desiderio di sperimentare di tutta la band, con le chitarre di Brian May, le percussioni di Roger Taylor e le linee di basso di John Deacon, oltre ad una miriade di strumenti che andavano dal piano all’arpa, dall’ukulele al koto al gong. May definì più tardi quest’album come “il nostro Sgt. Pepper”, scomodando i Beatles: questo era l’obiettivo della band, spingersi fin lassù, verso qualcosa di mai realizzato prima, di ambizioso, su cui puntare tutto per fare il grande salto. E così in molte delle canzoni si mixano perfettamente generi e arrangiamenti molto differenti fra loro: aperture teatrali (come quella di Death On Two Legs, dal testo che pare fosse una velata minaccia al precedente manager - colpevole dei loro mancati guadagni - ), sprazzi di operetta ( Lazing on a Sunday Afternoon) e versi d’amore (Love of my Life), spunti hard rock (come I’m in Love with my Car, Sweet Lady o la stessa Bohemian Rhapsody dopo la parte operistica) e momenti solenni come il remake strumentale di “God Save the Queen”, chiusura del disco, in cui le chitarre di Brian si sovrappongono creando cori e controcori: la canzone venne utilizzata come coda di tutti i loro concerti (in cui Freddy Mercury tornava sul palco con corona e mantello).
È un album maestoso, che ha un senso nella sua interezza, e come tale va ascoltato dall’inizio alla fine, nell’ordine in cui è stato pensato
È un album maestoso, che ha un senso nella sua interezza, e come tale va ascoltato dall’inizio alla fine, nell’ordine in cui è stato pensato. Anche tecnicamente fu qualcosa di molto complesso: ci fu un uso estensivo della tecnica di registrazione su multitraccia, che significava registrare ogni strumento o linea vocale su un canale diverso (per poterlo mixare successivamente in maniera separata), spinta anch’essa oltre i limiti. Se nei precedenti album i Queen avevano usato dei multitraccia a 16 canali, qui passarono all’uso del 24 tracce, registrandole tutte, poi mixandole in un unico canale e proseguendo, fino ad ottenere centinaia di voci e chitarre sovrapposte. Brian May usò, oltre alla sua chitarra Red Special autocostruita, un amplificatore realizzato ad hoc dal bassista John Deacon.
Per ottenere il suono che volevano furono utilizzati sette differenti studi musicali sparsi in UK.
Il risultato fu clamoroso e li proiettò verso una dimensione completamente diversa: l’album ad oggi ha venduto più di sei milioni di copie, è stato votato come il loro miglior album di sempre, e nel 2018 è stato inserito nel Grammy Hall of Fame che ospita gli album più importanti di sempre.
Dal college alla storia
I Queen non hanno bisogno di presentazioni, sono autori di alcune tra le più famose canzoni della storia del pop rock, da Don’t Stop Me Now a Another One Bites the Dust, da Somebody to Love a We Are The Champions, da Radio Ga Ga a A Kind of Magic. Sono nati dall’incontro di Brian May, un astrofisico, e Roger Taylor, studente di odontoiatria (che poi si laureò in biologia): la band dei tempi dell’università, gli Smile, riuscì addirittura ad aprire un concerto dei Pink Floyd nel 1968 e a firmare poi un contratto con l’etichetta (ironia della sorte) Mercury Records.
L’inizio della leggenda fu la Red Special. Brian, insieme al papà, si era autocostruito da ragazzo una chitarra elettrica interamente a mano, per l’impossibilità di comprarne una nuova di alto livello e per provare una sfida: realizzare da zero uno strumento più versatile, con una grande varietà di suono e un buon tremolo, e soprattutto una chitarra che rendesse bene nel feedback, essendo May ispirato da Hendrix e Jeff Beck. Ci vollero due anni per completare lo strumento a cui diede il nome di Red Special (per il colore rossastro del mogano e della vernice dall’effetto vetrato), ma fu lo strumento che pose le basi del sound dei Queen e che ancora oggi May utilizza per tutte le registrazioni della band.
In seguito avvenne l’incontro con Freddie che cambiò la vita di Brian e di Roger Taylor. Avendo perso il bassista/cantante Tim Staffell, lo sostituirono con Freddy Mercury, che di Tim era amico (e che seguiva da tempo il gruppo) e con Mike Grose al basso.
John Deacon arrivò solamente un anno dopo ( e prima di lui ci furono anche Barry Mitchell e Doug Bogie). Freddy (il cui vero nome è Farrokh Bulsara, ed era nato a Zanzibar) aveva ambizione, creatività ed era un visionario; per questo propose il cambio di nome in “Queen”, molto più altisonante e glam, oltre che immediatamente controverso per il richiamo all’ambiguità sessuale.
Il resto è storia: la band londinese ha avuto una carriera folgorante, interrotta purtroppo dalla morte prematura di Freddie Mercury nel 1991 a causa di una polmonite, complicanza dell’HIV a cui era positivo da anni. I membri restanti hanno proseguito fino al 1997, anno del ritiro di John Deacon, e continuano tutt’oggi un’attività musicale con il nome di "Queen più..." il nome del cantante di turno. Ma ovviamente per i fan la storia si è fermata molti anni prima.
Con il loro stile hanno influenzato una moltitudine di artisti, dal pop all’indie al metal, fra cui Nirvana, Radiohead, Muse, Robbie Williams, Darkness, Metallica, fino a George Michael, Adele e molti altri. Si stima abbiano venduto più di 300 milioni di dischi, in compagnia di nomi come Beatles, Elvis Presley, Michael Jackson, Led Zeppelin e Pink Floyd, e una cosa è certa: i Queen ormai fanno parte dell’Olimpo della musica, e le loro canzoni resteranno per sempre nella leggenda, comunque vada. O “anyway the wind blows”, come avrebbe detto Freddie.