Netflix per Natale ci regala l’apocalisse. Perché, alla fine, è il pensiero che conta. Ecco, alla luce di questa premessa, si può guardare (meglio, forse) Don’t look up, approdato sulla piattaforma della grande N il giorno della Vigilia. Un cast stellare: Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep e Timothée Chalamet, con la regia affidata ad Adam McKay, già vincitore dell’Oscar alla Miglior Sceneggiatura non Originale per La grande scommessa e più volte nominato all’ambitissima statuetta. Sulla carta, un capolavoro annunciato. Sullo schermo, invece, qualcosa è andato storto e qui nessuno, davvero nessuno avrebbe potuto prevederlo. La cometa della prolissità ammorbante ha impattato su un film dalle intenzioni più che lodevoli (come la strada per l’inferno, del resto) ma realizzato con un paio di fichi secchi e del Das, soprattutto considerato ciò che, da uno spunto iniziale così interessante, avrebbe potuto essere. Nel coro di elogi da parte di pubblico e (soprattutto) critica, ci sentiamo di alzare timidamente la manina destra per dirvi tutto quello che non funziona in questa aspirante pietra miliare del cinema di cui tempo una settimana non si parlerà nemmeno più.
Partiamo, quindi, dalle lodevoli intenzioni di chi l’ha partorito, anche perché il messaggio è chiarissimo: la cometa che, come prevedono i due scienziati DiCaprio e Lawrence, si schianterà contro la Terra (tempo sei mesi) provocando la fine del nostro pianeta, è metafora del Covid-19 (ma anche del surriscaldamento globale e di tutte quelle cosucce che, per quanto dette e ripetute da fonti più che auterovoli, nessuno legge davvero preferendo dedicarsi a scoprire ogni cosa sull’incredibile tecnica di balayage che si è fatta quell’influencer top in vista della fine dell’anno). La fine del mondo, invece, non desta particolare preoccupazione (anzi, nemmeno un plissè) alla Presidente Usa Meryl Streep (Miranda Prestley coi capelli lunghi) e al suo Capo di Gabinetto Jonah Hill, eterne macchiette che non riescono mai nell’impresa di diventare personaggi con vita e personalità proprie. Quindi l’apocalisse si avvicina (è proprio partito il countdown definitivo), il Governo se ne frega (come, del resto, le principali testate giornalistiche che si ostinano a risolvere la questione con sorrisi rassicuranti e meme ad hoc) e la gente mostra di avere più interesse verso la crisi di coppia di una celebre popstar (interpretata da Ariana Grande). Perché l’apocalisse, per quanto scientificatamente comprovata, sarebbe un tema così serio e noioso, signora mia, ci vuol leggerezza, positività, un caffeuccio, resilienza.
Questo il quadro della società (americana ma, chiaramente, non solo) che il regista Adam McKay vuole dipingere per il pubblico: un quadro surreale, fuori di testa ma allo stesso tempo spaventosamente verosimile. Al mondo siamo, purtroppo o per fortuna, vagonate di milioni di idioti e lo siamo sempre stati. Però, ora come ora, con più tools a disposizione per garantirci il sacro diritto civile al cazzeggio. Per iperbole, nemmeno un’imminente fine del mondo può scalfire la nostra dipendenza (mediaticamente indotta) dall’aria fritta sì, ma in modo così divertente. Don’t look up vuole (disperatamente) essere una graffiante satira sociale. E, in parte, ci riesce pure. Se si potessero recensire le intenzioni, questo film entrerebbe di diritto nella storia del cinema. Schiaffare in faccia a No-Vax e Qanonisti tutta la loro pericolosa imbecillità è di certo opera meritoria e siamo certi che gli stellari attori che fanno parte del cast abbiano voluto dare il loro contributo alla battaglia contro la pandemia. Tutto bello, tutto giusto. Fino a qui. Perché, come un tema delle elementari non è bello a giudicare solo dal titolo, così Don’t look up, deve essere considerato nel suo complesso. Facendolo, se ne ricava che l’umanità sia composta da una massa di trogloditi microcefali (possiamo accettarlo, è pressoché vero) che non bada alle cose davvero importanti per seguire, invece, qualsiasi tipo di corbelleria virtuale (ok anche qui). Ma come viene raccontato tutto questo? Maluccio.
Maluccio perché (fin troppo) spesso e volentieri montaggio e regia, guidati da una sceneggiatura prolissa in modo criminoso, contravvengono una delle principali regole auree del cinema: Show, don’t tell (aka, con licenza: facci vedere, non stare a monologare, sei un film, non un libro!). Invece nel corso delle due ore e mezza della sua durata, Don’t look up ci regala dialoghi e monologhi che farebbero addormentare perfino Gigi Marzullo prima della mezzanotte. Un altro esempio di nociva prolissità è, banalmente, una delle scene migliori del film: la canzone di Ariana Grande (intonata splendidamente e con un testo che, letteralmente, manda tutti gli idioti a fanculo) poteva essere un grandissimo momento, ma è stato diabolicamente diluito in un contesto così pieno di cose e in buona sostanza estenuantemente lungo, da riuscire nell’impresa di fargli perdere quasi del tutto l’impatto potenziale. Per non parlare degli effetti speciali per cui, per la maggior parte, persino Ed Wood avrebbe provato profondo imbarazzo ma che ci vengono sbattuti in faccia, così, come se fossimo negli anni 30 del 900 e non è che si possa pretendere troppo di più. Ma tutto questo non si può dire…
Qualunque critica a Don’t look up viene salutata dai social con rancorosi commenti e astiose accuse (la maggior parte delle volte, prive di fondamento): questo film invece di diventare un instant cult per la storia del cinema, si è immediatamente digievoluto in un vero e proprio culto. Quindi se un’anima pia dovesse mai azzardarsi ad avere da ridire sul suddetto insidacabile capolavoro assoluto, come minimo si ritrova bersagliato da insulti, interminabili pippotti su ciò che, di sicuro, non ha compreso insieme a svariati tipi di amenità, tra cui quella di essere un Qanonista senza rispetto per il prossimo, il pipistrello che ha diffuso il Covid, oppure uno che, quasi sicuramente, sventra gattini soriani nel garage di un vecchio rudere di campagna insieme a quei rettiliani di Hillary Clinton e Bill Gates.
In pratica, Don’t look up dice a gran voce che tutta l’umanità è stupida, fantascientificamente complottista nonostante ciò che ha davanti agli occhi ma, colpo di coda, il sacrosanto messaggio del film provoca un inaspettato ribaltamento: chiunque l’abbia visto, di base continua a fregarsene del surriscaldamento globale, magari pure del Covid e di tutte le ragioni per cui il mondo stia oggettivamente per finire (ok, non nel giro di sei mesi, è vero, ma in qualche decennio sì, se non cambiamo le nostre abitudini) e conduce la sua placida esistenza a inveire contro i detrattori di Leo DiCaprio e compagnia recitante. In sintesi, avete fatto diventare Don’t look up il nuovo giochino di intrattenimento che vi distrae dal pensare a ciò che davvero conta per la sussistenza del pianeta Terra, ovvero per le vostre stesse vite. Forse chi l’ha ideato, ha messo insieme una metafora troppo sottile, magari ci tocca sperare in un film di due ore e mezza in cui Meryl Streep ci mostra in vorticoso loop come fare la differenziata. Per adesso, ci teniamo Don’t look up, intoccabile faro che illumina le menti di chi, come tutta l’umanità all’interno del film, tiene altro a cui pensare per ammutolire il grido di aiuto che ogni secondo il nostro pianeta e i prestigiosi scienziati che per fortuna lo abitano lanciano in direzione dei nostri timpani, occhi, tastiere, smartphone. Ma vediamo un po’ cosa c’è su Netflix, sicuramente qualche altro titolo che varrà bene una catfight social in cui ci sarà da dirne proprio quattro a Pino, l’imbianchino di Ladispoli reo di aver reagito con l’emoji “GRRRR” al vostro stato di apprezzamento verso la quarta stagione di Multiversi boni assai e dove trovarli. Un capolavoro. Questo il colossale ribaltamento di percezione da parte del pubblico. Nulla di oggettivamente colossale si può, checcé se ne dica, riscontrare in Don’t look up, filmetto godibile in una sera d’inverno assonnati sul divano e, ci dispiace, oggettivamente nulla di più. Andava detto. Ora torniamo a sventrare i nostri gattini soriani insieme a Hillary e Bill. È di questo, nonché di un tifo sfegatato per l’estinzione, che si nutrono quei cattivoni dei rettiliani, del resto.