Senti parlare Ernesto D’Argenio e pensi che non potrebbe fare altro che l’attore. Vive i personaggi che interpreta, scava a fondo, cerca di capirli. Quando però lo ascolti e inizi a conoscerlo capisci che è l’esatto contrario: potrebbe fare di tutto e, ovviamente, da un momento all’altro. Ci tiene a farsi capire Ernesto, odia solo chi detesta il proprio mestiere. Abbiamo parlato con lui della serie Rocco Schiavone -tratta dai gialli di Antonio Manzini- in cui recita assieme a Marco Giallini, ma anche di tutt’altro. Dai viaggi all’amore per le moto, un’amore che lo ha portato ad una lunga collaborazione con BMW Motorrad.
La scusa per questa telefonata è la quarta stagione di Rocco Schiavone, che da mercoledì 17 sarà su Rai 2 e Amazon Prime Video.
“Si, ma tu l’hai vista?”
No, ho chiamato un paio di amici per farmela raccontare. Mi hanno parlato di Aosta, di Rocco, delle scene in cui vomiti quando vedi un cadavere.
“Incredibile, sono sempre le cazzate quelle che lasciano il segno, c’è poco da fare (ride, ndr)”.
C’è una scena molto intensa in cui Italo confida di essere un giocatore d’azzardo.
“Italo è così, sembra sempre lo stesso e invece, pur rimanendo nella Questura di Aosta, nella sua città, vive diversi cambiamenti emotivi. A parte il disvelamento della ludopatia, che è l’elemento cardine più chiaro per gli spettatori, continuano a ribollire in lui tante cose. Un movimento emotivo continuo. Certo, se tu l’avessi visto sarebbe più facile raccontartelo”.
“Io faccio l’attore perché l’ho sempre voluto fare. È un desiderio forte che ho da quando ero piccolo, una cosa che non è stata facile realizzare, forse anche per questo l’ho voluta di più. E per questo lotto ancora".
Mi hanno parlato di una storia d’amore piuttosto complicata tra i protagonisti.
“Si, ecco. Lui viene in qualche modo tradito dal suo capo, che è anche il suo mentore”.
Che relazione c’è tra Rocco e Italo?
“Forse Rocco è un po’ un fratello maggiore. Nonostante vengano da ambienti molto diversi, con Schiavone che conosce la Roma bella ma criminale mentre Italo viene dalle montagne di una terra di confine, credo che Rocco riconosca in Italo qualcosa che gli appartiene. Lo dico a bassa voce, e ovviamente il protagonista è Schiavone, ma credo che il personaggio di Italo sia più tragico, nel senso che non sappiamo mai nulla della sua famiglia. C’è solo una zia, una sorta di amore che se ne va, tanta solitudine”.
Una disperazione più vicina a noi rispetto a quella di Rocco, che si presenta come una sorta di antieroe?
“Si, anche perché vive cose che sfiorano il tragico. Come la ludopatia, che ti porta al peggio di te. Invece Schiavone, per quanto sia un personaggio dannato, ha l’appiglio degli amici di Roma o della moglie, con cui lui parla”.
Perché l’Italia è così legata al poliziesco? Penso a questa serie, ma anche a Montalbano o Squadra Antimafia, in cui hai recitato. Stesso discorso per Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra. Sembra che siano questi gli unici prodotti in grado di riportano l’Italia lontano dalle fiction all’italiana.
“Generalizzando un po’ - quindi prendilo con le pinze - credo che ad attrarre di più sia raggiungere il risultato con qualunque mezzo. Che può essere l’astuzia, il coraggio, la furbizia. Anche andare contro alle regole, in alcuni casi. Storicamente l’Italia è la patria dell’arte di inventarsi, che a volte sconfina nel criminale. Nella nostra storia passiamo dall’aristocrazia di Gianni Agnelli - che ha costruito un impero ed ha rappresentato un’Italia produttiva, elegante e con un certo savoir faire - alla storia di Renato Vallanzasca, che invece è partito dal nulla e ha intrapreso la sua scalata al successo in ambito criminale. Spesso c’è una linea sottile che unisce i due mondi”.
"Quando ti trovi da solo, in una stanza affittata in un quartiere di una metropoli che non conosci, dove non conosci nessuno e non capisci la lingua, hai pochi soldi e puoi contare solo sulle tue forze… forse da qualche parte hai il desiderio di soffrire".
Ho visto il video con BMW Motorrad in cui citi Shakespeare: “siamo tutti attori”. Perché, allora, hai deciso di fare l’attore?
“Io faccio l’attore perché l’ho sempre voluto fare. È un desiderio forte che ho da quando ero piccolo, una cosa che non è stata facile realizzare, forse anche per questo l’ho voluta di più. E per questo lotto ancora. Credo, senza presunzione, di esserci portato. Ho un’attitudine all’osservazione del mondo, dell’essere umano e dei suoi comportamenti, atteggiamenti e meccanismi. Questa attitudine, che magari alle superiori si manifestava nelle imitazioni dell’insegnante, si è trasformata nell’osservare le persone. Ho avuto l’onere e l’onore di servire un primo ministro a tavola, ma anche quello di parlare con persone umili. Chessò, uno che fa il torrone a Tonara, in Sardegna”.
Sei partito di casa a 19 anni, immagino con la priorità di arrivare lontano. Perché?
“Forse è un trauma che ci causiamo, che poi in qualche modo torna utile più avanti. Inconsciamente forse è anche il bisogno di farsi del male. Quando parti non lo sai, ma quando ti trovi da solo, in una stanza affittata in un quartiere di una metropoli che non conosci, dove non conosci nessuno e non capisci la lingua, hai pochi soldi e puoi contare solo sulle tue forze… forse da qualche parte hai il desiderio di soffrire (ride, ndr). Una volta c’era il militare, ed era il più grande momento di transizione dall’età giovane a quella adulta. Venivi sradicato dalla tua realtà e portato in un altro posto così, in maniera coercitiva. A suo tempo io mi iscrissi all’università, era l’ultimo anno di leva obbligatoria e andava di moda ribellarsi alla naja. Andare via è come fare il militare. Una cosa che in futuro non credo faranno più, almeno metaforicamente”.
A me un lungo viaggio ha lasciato l’intimo piacere di potermi perdere. E di inventare soluzioni.
“Lo può capire veramente solo chi l’ha vissuto. Tante persone che hanno l’abitudine a stare un po’ più comode - ma non giudico, per carità - mi hanno detto ‘ma chi sei, Manuel Fantoni?’ (del film di Carlo Verdone Borotalco, ndr.) ma la battuta ironica la può fare soltanto chi non sa davvero cosa vuol dire. Quando Fantoni dice ‘mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana’ fa ridere, ma quando sei al porto di Singapore da solo, e non ti ci hanno mandato i tuoi genitori con la borsa di studio da 20.000 dollari o l’università di sa ‘l cazzo, non fa più tanto ridere. Nel mio caso era una nave battente bandiera Bahamas”.
Ti manca un po’ di incertezza?
“Guarda, a dirla tutta l’ho ritrovata nel mio mestiere… mi manca solo il non potermi buttare nelle cose. Ho delle fisse strane, chessò, i coltelli. Vorrei entrare in una coltelleria e mettermi a lavorare lì, con il signore che li costruisce e stare lì per un tempo imprecisato”.
Come Daniel Day-Lewis quando si mise a fare il calzolaio a Firenze.
“Si, però sai… senza la solidità di aver vinto due Oscar prima (ride, ndr). Mi manca vivere il mondo attraverso le esperienze. Perché adesso bisogna stare nella propria casella, anche se credo che quella dell’attore sia tra le più ampie. Però ecco, non è che puoi stare a pulire carburatori nel Wyoming per un anno e poi tornare come se nulla fosse. Ero in California, ho incontrato un meccanico, abbiamo iniziato a parlare di auto e moto e mi sono talmente innamorato di quella situazione che sarei rimasto da lui. Se non avessi intrapreso questa carriera, che comunque mi rende felice - per quanto a volte sappia essere dolorosa - probabilmente l’avrei fatto”
Mi hai fatto pensare che forse la moto può essere la risposta ad un nostro intimo desiderio di equilibrio precario.
“Bello, si. Vero. Se fossi uno squalo la ruberei.”
Ma certo, perché no.
“Poi ti dovrei citare! Ci ho pensato perché domani comincerò una supervisione artistica di altri spot per BMW sulla falsariga di quello che ho fatto, probabilmente ne dirigerò uno assieme al regista del filmato in cui ero protagonista, Manuel Savoia, con cui mi sono trovato molto bene. Comunque si, è vero. E dico due cose sulla moto. La prima è che siamo i cavalieri del presente, perché un tempo c’era chi andava in carrozza e chi andava a cavallo. Chi va in moto oggi è un po’ un cavaliere, con la speranza che lo sia anche in strada, comportandosi bene. E poi, che è banale quanto vero, il fatto che andare in moto ti espone a tutto. Dal meteo al moscerino, passando per l’imprevisto e arrivando alla strada, all’incontro. Anche al fisico. Mentre in macchina sei protetto in moto no, devi necessariamente esporti”.
Sei un attore, ma sei stato un viaggiatore. Chi dei due fa più spesso l’amore?
“Mi metti nei guai, qualsiasi risposta potrà essere usata contro di me in tribunale... Sono fidanzatissimo! (ride,ndr.) Scherzi a parte, in realtà dipende un po’ da come gestisci il successo, viaggiando ho avuto tanti bellissimi incontri con donne strepitose. Ragazze un po’ da ogni parte, sono stato tanti anni con una svedese… Devo ammettere di essere stato sempre molto fortunato con le donne. Umanamente fantastiche, anche se esteticamente ho dei canoni un po’ diversi dal gusto imperante. Da libero ho avuto degli incontri abbastanza assurdi, in posti remoti, sulla nave da crociera…”
Raccontane uno.
“A Londra ho conosciuto questa ragazza spagnola, Anna… E in qualche modo eravamo rimasti in contatto. Poi la nave su cui ero imbarcato ha intrapreso un lunghissimo viaggio: dopo due settimane nello stretto tra Myanmar e Tailandia, è partita dall’Australia per arrivare a Barcellona. Un viaggio lunghissimo. Questa ragazza è venuta al porto di Barcellona, ma non siamo riusciti a fare in modo di incontrarci. E ho questa scena di lei che mi saluta, faceva così con la mano. Io ero lì sulla barca, quando ci penso mi fa scoppiare il cuore. Adesso hanno tutti troppo da fare per vivere”.
"Diventa una sorta di settimo senso, che a volte ti porta a buttarti nelle cose, altre volte a prendere delle scelte che normalmente non faresti e di conseguenza ad avere delle possibilità che mai avresti sospettato".
Tu hai fatto il sommelier. Anzi, sei un sommelier.
“Si, ho fatto il sommelier. Penso che sia una di quelle cose che capitano quando ti esponi alla vita e sei libero. Difficilmente però succede nei nostri luoghi, perché lì è tutto un po’ più scandito. Invece capita spessissimo quando esci dal tuo paese. È come se venissi preso da un istinto di sopravvivenza che nella tua città puoi provare solo per qualche secondo. Come trovarsi in una rissa da ragazzi, ma anche lì dura il tempo di un attimo. Questo istinto di sopravvivenza diventa una sorta di settimo senso, che a volte ti porta a buttarti nelle cose, altre volte a prendere delle scelte che normalmente non faresti e di conseguenza ad avere delle possibilità che mai avresti sospettato. Comunque. Avevo cominciato come bartender, poi venni promosso. Un giorno venne nel locale in cui lavoravo una signora che stava nelle risorse umane dell’albergo di fronte… mi diede il suo biglietto, io fui molto professionale. Odio le persone che non amano quello che fanno. Mi rendo conto che non tutti possano fare il lavoro della loro vita, quello dei loro sogni. Ma sicuramente molti di quei lavori che non ci piacciono sono una fase intermedia per arrivare davvero a quello che vorremmo fare. E secondo me anche lì devi dare il meglio. Non mi devi far capire che la stai facendo male perché vorresti fare altro”.
Mi hanno detto che puoi anche fare il lavoro dei tuoi sogni, ma alla fine farai quello che ti piace per il 10% del tempo. Il resto è altro.
“Non potrei essere più d’accordo. Per me quel 10% è parlare con le persone, sapere che qualcuno apprezza profondamente quello che hai fatto. E mi più di qualsiasi scena tagliata o dinamica di potere di cui il mio mestiere non è privo. Sapere che nonostante tutto arrivi a qualcuno, anche se magari non vincerai mai un premio per motivi che possono essere diversi. Ma c’è chi ogni tanto ti scrive qualcosa che ti colpisce. E ti rende tutto”.
Comunque, eravamo arrivati al sommelier.
“Si, successe che uno dei manager ci faceva ricoprire a rotazione una delle responsabilità del sommelier, che era il riapprovvigionamento. Nessuno voleva farlo perché andare in cantina era scomodo, le bottiglie erano pesanti. Invece io ci andavo con piacere, mi piacevano l’odore, i colori. In questo modo ho imparato un po’ a conoscere i vini capire cos'è uno Chablis, un Petit Chablis, i vini della Borgogna… e sono riuscito a lavorare come commis sommelier in un ristorante stellato di Londra, per poi fare il sommelier sulla Silver Sea, la nave da crociera in cui ho lavorato”.
Che cosa bisogna bere guardando Rocco Schiavone?
“Bianco o rosso?”
Rosso.
“Dato che parliamo di Schiavone, che è un po’ contraddittorio, penso che consiglierei un Amarone. Che nasce da un errore, dall’errore di chi voleva fare un vino dolce che era andato oltre il momento in cui doveva essere imbottigliato. Quindi non è amaro, è Amarone”.
Perché è un po’ la doppia anima di Rocco Schiavone?
“Si, di fatto lo è. Un eroe negativo, che però ci piace. Io fondamentalmente credo che Schiavone sappia, in fondo, quanto di giusto e sbagliato ci sia nel mondo e nella società. Lui picchia uno stupratore, ma questo è figlio di un potente. E già questo ti dice tutto. È uno che ha fatto la cosa giusta nel modo sbagliato in un mondo in cui i modi spesso sono più importanti della sostanza. Spesso, se sei bravo a fare il tuo lavoro ma non lo sei altrettanto a proporlo… diventi immediatamente un cagacazzi. Schiavone questo lo sa, e di fatto è uno che viene mandato praticamente in esilio. Però è un uomo che abbandona, in un certo senso. Ed è anche per questo che ci piace, perché ci permette di vedere lo sguardo puro di una persona che non ha più a che fare con queste lotte, con le sofferenze della vita di tutti. Lui in qualche modo se n’è allontanato, così la sua filosofia ci è ancora più cara. Perché è anche la nostra, che però in questo mondo ci viviamo”.