In giorni di fervente dibattito sulla raccolta firme per arrivare al referendum sulla cannabis legale, in merito a questo tema si sono pronunciati, che fossero favorevoli o contrari, artisti, intellettuali e pure l'immancabile Fedez tramite storie Instagram. Abbiamo pensato di contattare Fabio Cantelli Anibaldi, uno dei personaggi rivelazione della docu-serie Netflix Sanpa per chiedergli la sua opinione, dall’alto della sua esperienza di vita e per l’attività che svolge all'interno del Gruppo Abele, Onlus torinese che si occupa anche di tossicodipendenze, di cui attualmente è Vice Presidente. Ne è nata una chiacchierata che tocca, oltre a quello del referendum in oggetto, molti altri temi, dalla felicità (di cui ogni essere umano sarebbe "in debito" dalla nascita) all' "esercito di invisibili" che sono i tossici dei nostri giorni "molti di più di quanti ce ne fossero negli anni Ottanta e Novanta". Infine, David Bowie, Rolling Stones e Franco Battiato.
C’è una raccolta firme per un possibile referendum sulla cannabis legale. Se ne devono raggiungere 500mila entro il 30 settembre, ma nei primi due giorni hanno già firmato 200mila persone. Lei è tra queste o comunque ha intenzione di firmare?
Penso che la questione droghe sia troppo importante per essere affrontata in termini di “legalità”, di divieto o permesso, come desolatamente si continua a fare da cinquant’anni. È una questione culturale che riguarda la condizione umana, i nostri bisogni profondi. Il primo dei quali è il bisogno di star bene e, se possibile, di essere felici. L’uomo cerca nelle droghe il “sentire assoluto” della vita prenatale, esperienza di cui non abbiamo avuto coscienza ma che nondimeno – il feto se non è cosciente è certamente senziente – determina a livello inconscio il nostro percorso terreno, la nostra vita cosiddetta consapevole. Finché non si guarderà all’assunzione di droghe da questa prospettiva – e si capirà che è nella solitudine dell’adolescenza che questo sentire inconscio torna prepotentemente a galla trovando nelle droghe il più perfetto surrogato o corrispettivo – l’assunzione e l’abuso di stupefacenti continuerà a essere oggetto di retoriche o proclami e il fenomeno continuerà tranquillamente a dilagare.
Ma non mi ha ancora risposta direttamente: firmerà o no per il referendum sulla cannabis legale?
No, non firmerò. A mio avviso, semplicemente, c’è una riflessione molto più profonda da fare. Per fortuna, grazie anche ai giri che sto facendo in Italia per il libro, vedo che nel mondo della psicologia e della psichiatria si avverte il bisogno di rivedere il discorso sulla tossicodipendenza.
In effetti la questione del supporto psicologico ai tossicodipendenti mancava pressoché totalmente a Sanpa, di sicuro nei primi anni della comunità. Mi sta dicendo che oggi è ancora così?
Sì, anche adesso. Il modo in cui la psicologia tratta il problema della tossicodipenza è spesso molto superficiale: una persona inizia a drogarsi perché ha avuto dei traumi o perché è nata in periferia dove non c’era nulla da fare. In genere, l’analisi si ferma lì. E invece no: è una questione che va molto molto avanti e che riguarda il debito di felicità con cui noi mettiamo piede in questa dannata terra.
“Debito di felicità” suona molto meglio di “peccato originale”…
Esatto. Il cristianesimo ha fatto il contrario, ha rovesciato la cosa: tu devi sentirti in colpa, devi espiare. Invece non è così. Questo sentimento, il “sentire assoluto” di cui parlavo prima, viene fuori soprattutto nell’adolescenza che è un’età decisiva per la vita di tutti gli uomini, non solo dei tossici. Perché nell’adolescenza tu conquisti per la prima volta il diritto di stare da solo, magari anche in camera tua ma da solo senza che i genitori ti stiano necessariamente dietro. Questo incontro con la solitudine è un Big Bang nella vita perché noi lì facciamo conoscenza del nostro mondo interiore, delle nostre emozioni: ci identifichiamo per la prima volta.
In che senso?
Nel senso che non è che prima non provassimo nulla ma c’è una differenza fondamentale: da bambini noi non siamo felici, da bambini noi siamo la felicità. Nell’adolescenza diventiamo coscienti di essere felici o di essere tristi, melanconici. E questa coscienza cambia tutto: scopri di essere un individuo, unico, diverso da tutto il resto. Questo sentimento fortissimo di “te” è qualcosa che rimanda a questo “sentire assoluto” che secondo me ci segna e ci rimane da quando mettiamo piede sulla terra. Quando siamo neonati, siamo circondati da persone che ci accarezzano, si prendono in cura di noi e così facendo non ci fanno sentire più di tanto questo vuoto, anzi questo tutto, da cui veniamo strappati che è il grembo materno. Grembo materno che poi la comunità, difatti, cerca di riprodurre. L’intuizione di Sanpa è stata questa: ricreare intorno a noi un grembo materno in modo che potessimo sentire di meno il distacco dal grembo che era stata l’eroina.
E definirebbe Sanpa come un grembo materno?
Sanpa è stata un grembo che, come quello materno, s’era dato la “missione” di partorirti di nuovo, di rifarti da capo. Ora, è proprio a questa logica “palingenetica” che a un certo punto mi sono opposto ed è in questo senso che parlo di “madre amorosa e crudele” già nel titolo del mio libro. Credevo e continuo a credere che l’amore autentico non escluda la lucidità e la coscienza critica. Altrimenti non è amore ma labile, per quanto devota, infatuazione. In generale, queste e quelle sopracitate sono tutte questioni di cui non puoi non tenere conto quando parli di tossicomania che invece negli ultimi 50 anni, da quando è esploso il problema, è stata trattata in modo molto limitante.
Cosa manca per abbattere questi limiti?
La comprensione oggi è più che mai ardua perché sulle questione è in atto da anni una rimozione in forma di normalizzazione. Le droghe sono state mercificate: basti pensare che 5 euro per una dose di eroina è come dire gratis rispetto a quello che costava ai miei tempi. Quando l’ho saputo, sono caduto dalla sedia. Ma come è possibile?
E come è possibile?
Per dirla proprio in maniera cruda posso asserire che le mafie – che ho studiato lavorando da 20 anni al Gruppo Abele con don Ciotti – sono sempre molto scrupolose nel fare i loro conti: se hanno deciso che va bene vendere una dose di eroina a cinque euro vuol dire che questa cifra garantisce comunque profitti ingenti. Ne consegue che il numero degli acquirenti sia dieci volte tanto rispetto a quello di quanti eravamo noi negli anni Ottanta e Novanta. Le droghe sono state, come dicevo, mercificate e, dunque in un certo senso già legalizzate perché oggi la legge non la detta la morale – con tutte le prevaricazioni che in nome di un’idea di bene si possono compiere – ma la detta il “Mercato”, potere supremo che nessuno sembra voler mettere in discussione.
Mi ha appena detto come l’eroina sia ancora un problema oggi, agli stessi livelli – se non superiori – a quelli degli anni Ottanta e Novanta… davvero?
Certo. Solo che non si vede. Perché il tossico non deve più rubare o prostituirsi, non è più un elemento di disordine sociale, di scandalo o di rabbia. Quando noi andavamo a scippare, a rapinare, a puntare la siringa dicendo: “È sangue infetto di Aids”... capisci bene che la gente si incazzava ad averci in giro per le strade.
Ok, quindi il problema dell’eroina esiste ancora, forse addirittura in forma esponenzialmente maggiore, ma i tossici hanno smesso di disturbare la quiete pubblica quindi non se ne parla più?
Sì. Sono diventati un esercito di invisibili. E poi esiste il metadone, una di quelle cose che rende cronica la dipendenza. Cronica sì, ma innocua. Questo permette di non confrontarsi con una cosa che per me invece è palese ovvero che la vita con le droghe è una vita di merda perché le droghe ti sedano le emozioni, le anestetizzano.
Non le amplificano?
No. Soltanto gli psichedelici, gli psichedelici hanno un effetto simile.
Tornando alla cannabis, ne ha parlato in Sanpa dicendo che già da giovanissimo le sue idee in merito fossero chiare: se avesse iniziato a drogarsi, non avrebbe optato per le canne ma avrebbe cominciato fin da subito con qualcosa di più pesante. Lei fuma, attualmente?
Non è che avessi le idee chiare: vedevo l’effetto che la cannabis aveva sui miei coetanei, effetto che mi sembrava simile a quello dell’ebbrezza alcolica, e mi dicevo che se mai mi fosse accaduto di provare una droga avrei cominciato da quelle vere come l’eroina, sulla quale già all’epoca circolavano miti e leggende accattivanti, legate all’arte e alla letteratura. Ho tenuto fede al mio proposito iniziando a 18 anni dall’eroina in vena, mosca bianca tra le centinaia di tossicomani con cui avrei avuto a che fare prima, durante e dopo la comunità, che avevano tutti iniziato dalle canne. No, non fumo: non ho mai fumato una canna in vita mia e nemmeno una sigaretta.
Essendo già in tema raccolta firme e referendum, cosa ne pensa di quello sull’eutanasia legale?
Che solleva un problema serio, molto serio, perché chiama in causa la questione della morte, cioè del grande rimosso e interdetto dell’Occidente, rimozione alla base, secondo me, di tante storture e violenze della sua cosiddetta “civiltà”. Sono assolutamente favorevole a legittimare la volontà di smettere di vivere quando la vita diventa atroce sopravvivenza, protratta agonia. E lo dico non sulla base di “principi”, ma di esperienza, di vita vissuta. È dal 1989, cioè ormai da 32 anni, che mi confronto con il problema di un virus per il quale non è stato ancora trovato il vaccino – l’Hiv – e che fino alla seconda metà degli anni ’90 è stato causa di morte certa e spesso rapida. Quindi è da allora che mi confronto con il problema non del “quanto” vivere ma del come vivere, cioè del dare senso e dignità a un tempo residuo di vita. Se un malato incurabile soffre atrocemente e sente che la sua vita non ha più senso e dignità ha tutto il diritto di porre fine, senza violare una legge, alla sua agonia.
Quindi firmerà o ha già firmato?
Non ancora, ma di certo lo farò.
Inevitabile parlare di Sanpa, la docu-serie Netflix: si aspettava il successo che ha ottenuto? Soprattutto: si sarebbe aspettato di diventarne il personaggio simbolo?
Non mi aspettavo il successo, ma mi aspettavo – o quantomeno speravo – che la serie non sarebbe passata inosservata, avendo avuto modo di accertare la serietà, il rigore, la passione che Cosima Spender, Valerio Bonelli e gli autori hanno messo nel realizzarla. “Sanpa” è un’opera a mio avviso destinata a segnare uno spartiacque nella realizzazione di documentari nel nostro Paese, avendo posto indici di qualità altissimi nella ricerca delle fonti, del materiale d’archivio e nel montaggio. Che io ne sia il personaggio simbolo lo lascio dire agli altri: mi sono limitato a raccontare la mia esperienza e le riflessioni, anche molto tormentate, che mi ha suscitato mentre si svolgeva e anche in seguito.
Immagino abbia guardato Sanpa: cosa ha pensato quando si è visto su Netflix? C’è qualcosa che non ha raccontato nella serie (o che è stato tagliato per via del minutaggio) che vorrebbe condividere con noi?
Direi che l’essenziale è stato conservato, anche perché dopo la prima delle mie due interviste – più di tre ore ciascuna in quella stanza d’albergo – si è stabilito con la regista e gli autori un rapporto che ha permesso di conoscerci e di collaborare sia pure a distanza, visto che erano i mesi del lockdown. Quando mi sono rivisto ho provato un’emozione molto forte. Per quanto possa suonare paradossale l’emozione è venuta dal fatto che mi sono riconosciuto. Ero proprio io quello che parlava in quella cameretta e che si emozionava quando – raccontando della sua clausura nello stanzino del parco – gli si spezzava la voce in gola nel dire che al culmine della disperazione si era visto “da fuori” e proprio allora aveva deciso di prendersi cura di sé. Quando mi sono rivisto in video raccontare quella vicenda mi sono emozionato e commosso anche da telespettatore.
Secondo lei perché Red Ronnie ha preso così male l’uscita di Sanpa? Ha letto le sue critiche feroci sui social e su varie testate online?
Non lo so, non conosco Red Ronnie anche se l’ho visto qualche volta a San Patrignano e un paio di volte ho accompagnato Vincenzo Muccioli a “Roxy bar”, il programma che Red Ronnie conduceva su Videomusic negli anni ’90. Non lo conosco e non posso sapere dunque cosa l’abbia indotto a quelle critiche. Ciò detto, le semplici opinioni su San Patrignano, positive o negative che siano, non m’interessano. M’interessano le testimonianze e le considerazioni di chi ci è stato ospite per molti anni, cogliendo la complessità di quell’esperienza, l’impossibilità di ridurla a un unico “bene” o “male”. Cogliendone cioè la grandezza e le storture, le luci e le ombre o, come nel caso dell’omicidio di Roberto Maranzano, le tenebre.
Il suo libro autobiografico “Sanpa - Madre amorosa e crudele”. La storia della sua pubblicazione è piuttosto rocambolesca…
Della prima edizione ho raccontato dettagliatamente la storia nel “proemio” scritto per la ripubblicazione del marzo scorso. Che è a sua volta una vicenda abbastanza letteraria perché è stato a dir poco stupefacente per me vedere un libro oggetto, ventisei anni fa, prima di boicottaggio e una volta pubblicato di sostanziale indifferenza, essere oggi conteso all’asta da otto importanti case editrici.
Una curiosità: come e perché nasce la scelta di quell’immagine di copertina?
L’immagine di copertina è una proposta della Giunti, segnatamente della bravissima art director Rocio Isabel Gonzales. Immagine che ho trovato consona all’apparente ossimoro degli aggettivi “amorosa” e “crudele” – un amore quando diventa possessivo può infatti essere crudele – consonanza che mi pare rappresentata con molta efficacia nella dolcezza della bocca e dei lineamenti del viso attraversati da un rigo di sangue.
Lei è molto appassionato di musica, soprattutto di David Bowie. Mi incuriosiva molto - e forse nella serie non è uscito granché questo aspetto - la gestione che Sanpa aveva riguardo alla musica. Ho sentito di un ragazzo che si faceva mandare le musicassette degli album appena usciti pur sapendo di non poterle ascoltare. Le teneva come “speranza” per quando poi, un giorno, sarebbe andato via da lì. L’ho trovata una cosa molto poetica, a suo modo...
Sì, l’ascolto privato e “isolato” della musica era stato vietato nel 1982, un anno prima del mio arrivo, e quando lo scoprii fu per me un ulteriore shock che rese ancora più penoso il distacco da eroina e cocaina. Sì perché era un divieto non privo di ragioni: l’ascolto solitario della musica, di certe musiche in particolare – ognuno aveva le proprie – scatenava una sarabanda d’immagini ed emozioni legate al passato dal quale dovevamo divorziare, prendere una volta per tutte le distanze. Vincenzo Muccioli lo capì e da qui venne la decisione di proibire l’ascolto solitario della musica. Potevamo fare musica insieme, all’aperto e senza limiti al repertorio, come comitive di bravi ragazzi in gita, ma la condivisione e il gruppo era la condizione per ascoltarla.
Le cose, poi, sono mai cambiate?
Sì. Il divieto venne sospeso nel 1985, quando una delegazione di “veterani” andò da Vincenzo e gli parlò del “Live Aid”, il megaconcerto con tutte le stelle del rock trasmesso dalle tv di tutto il mondo. Vincenzo acconsentì che lo vedessimo ma tutti insieme nel grande cinema teatro della comunità, appena costruito. Lui era lì con noi, a vedere che effetto faceva ai suoi naufraghi sentire dal vivo le musiche e gli idoli per cui avevano spasimato: Bowie, i Queen, Mick Jagger, gli U2 e tanti altri...
Una canzone da cui si sente rappresentato, una di quelle che ascoltandola le ha fatto dire: “Eccomi, sono io”...
Non posso dirne solo una, ma almeno quattro. Oguna per una stagione della mia vita. Sono queste:
Fabio 1979, prima dell’eroina:
“Width of a circle” David Bowie (in The man who sold the world)
Perché? Racconto allegorico dell’adolescenza mia e di tutti, in bilico tra imbarazzo e spavalderia, timidezza e superomismo: when God did take my logic for a ride, canta David a un certo punto. Ma il verso che più mi colpì – corrispettivo del “Io è un altro” di Rimbaud nella Lettera del veggente – è questo: «then I ran across a monster who was sleeping by a tree. And I looked and frowned and the monster was me».
Fabio 1981, tossicomane alle prime armi
“Little T&A” Rolling Stones (in Tatoo you)
Perché? La dedicavo a Cristina, la mia ragazza, compagna e complice della mia tossicomania quando prendevamo l’ascensore della casa di via Molino delle Armi con le bustine d’eroina nella giacca, viatici di estasi che c’illudevamo ancora fossero condivise.
Fabio 1988 in comunità, ancora ignaro d’essere malato
“Fisiognomica” di Battiato (in Fisiognomica)
Perché? C’è un verso con cui mi sarei trovato pochi mesi dopo a fare i conti: «Vivere venti o quarant’anni in più è uguale, difficile è capire ciò che è giusto e che l’Eterno non ha avuto inizio perché la nostra mente è temporale».
Fabio oggi
“It’s no game” pt.1 David Bowie (in Scary Monsters)
Perché? È forse la canzone di Bowie che ancora, in assoluto, mi scuote di più. Ogni volta che la risento rivedo la scena descritta anche in “Sanpa–madre amorosa e crudele”. Settembre 1980: piantato a un semaforo di corso Buenos Aires, incapace di avanzare come di retrocedere, irrigidito in una sorta di vigile catatonia, magrissimo con una camicia strappata sul davanti, un sacchetto di liquerizia in mano e “Scary monsters” nell’altra…
È felice?
Faccio una vita felice perché è una vita nella quale mi riconosco, la sento veramente mia. Da adolescente tu credi che la felicità sia un orgasmo, una fiammata, un’esplosione. Se poi riesci a maturare, a fare nella tua adolescenza un percorso di conoscenza e soprattutto di conoscenza di te stesso, di crescita umana, arrivi a capire che la felicità non è la fiammata, non è l’orgasmo. La felicità è la custodia quotidiana, paziente, rigorosa della fiamma. Bisogna alimentare ogni giorno la fiamma, cioè la passione che ti muove e che è la tua ragion d’essere.
Qual è la sua fiamma?
Per me è la scrittura. Quella è la felicità. Per essere felici bisogna essere molto costanti, rigorosi e autodisciplinati. Quindi in questo senso, sì, sono felice. Perché ho imparato l’autodisciplina: a darmi dei limiti, a mettermi in discussione nei momenti in cui magari faccio un po’ il cretino e perdo tempo. Quando capita, mi inchiodo subito e dico: “No, tu non puoi permetterti di perdere tempo perché non sai quanto vivrai”. In generale, comunque, a mio avviso nessuno dovrebbe permettersi di perdere tempo.