Ciao, chiamo per l’intervista. Disturbo? «Figurati, ero al lavoro con la mia moltitudine». Ci è spiaciuto interromperlo, ma ha avuto la meglio la curiosità di comprendere - come se poi fosse possibile - questa attività così poco abituale (almeno per chi scrive). D’altronde chi lo segue da tempo, su Instagram o nei numerosi eventi live pre-Covid, già conosce le poliedriche manifestazioni di Gio Evan: scrittore, poeta, filosofo, umorista, cantautore e performer. Per tutti gli altri, abbiamo provato a indagare un po’ meglio le varie sfaccettature di un personaggio che, benché sia ormai molto noto, ci è parso che non abbia ancora espresso tutte le sue reali potenzialità. Anche perché, dopo il dialogo che leggerete di seguito, vi accorgerete che per lui i confini non esistono, in particolare in ambito artistico. E se pensate che sia meramente un fenomeno social, vi sbagliate di grosso. Non soltanto non si considera “il poeta dei millennials” – come lo aveva definito un articolo di qualche anno fa del Corriere della Sera, semmai “il poeta del millennio” –, ma perché la profondità spirituale alla quale attinge è talmente vasta che sarebbe in grado di applicarsi in qualsiasi campo della creatività umana. E infatti, ci ha anticipato che sta già lavorando a spettacoli muti in posa e addirittura a un omaggio all’amato bosco, facendosi piantare nel terreno come un albero per rimanere in contemplazione della natura per alcuni giorni. Insomma, tenetelo d’occhio, visto che a 32 anni questo artista così proteiforme è solo all’inizio delle molteplici trasformazioni.
Ci sono persone che non stimano il mio lavoro, che se ne fregano della poesia. E in fondo è giusto che sia così, perché anche la poesia se ne frega di loro
Intanto comincerei col chiederti una definizione di te, anche perché poeta, scrittore, musicista o performer mi sembrano tutte riduttive, non credi?
"Penso di star facendo capire a me stesso che non ho bisogno di definizioni. Mi fanno male, a quanto pare. Non mi piace in generale definire, delineare, perché rischi sempre di creare dei confini con te stesso. È come occupare la libertà, ma in un piccolo spazio. Io invece ho bisogno di lanciarmi verso delle nuove sorprese, di azzardare cose che mi rendono più instabile e insicuro. Faccio solo quello che mi fa stare bene e mi permette di capire me stesso. Quindi sono aperto nello spingermi anche verso la pittura o addirittura il giardinaggio, se dovessi preferirmi tra gli alberi".
Iniziamo dalla poesia, visto che è stata la prima forma artistica che ti ha reso celebre, in particolare attraverso i social. Sembrava una attività destinata a una nicchia o persino in via di estinzione, invece grazie a Instagram ha ritrovato un vasto pubblico. Come te lo spieghi?
"In realtà la poesia che amavamo e abbiamo un po’ tralasciato, cioè quella del passato, usava un linguaggio vetusto, per dirla con una definizione dell’epoca. Però, perlomeno gli scrittori del ‘900, hanno sempre colpito molto i ragazzi di oggi. Per esempio, non sono mai mancate le citazioni che comprendevano le poesie di Bukowski o della Merini, per cui una parte di pubblico li leggeva anche prima, ma non sapevi che li leggessero. Con i social abbiamo cominciato a educarci a vicenda. Su Instagram ne assorbi la testimonianza, lo verifichi e la poesia contemporanea è uscita con più tenacia e aggressività. Da questo punto di vista lo abbiamo gridato al mondo, e chi non era avvezzo ha potuto approfondire più comodamente. I social hanno permesso che tutto fosse più maneggevole. In definitiva, ha reso la poesia più dinamica".
«Non è quello che ci siamo dati a mancarmi, ma quello che avremmo dovuto darci ancora». Con questo messaggio su Instagram Elisa Isoardi ha annunciato la fine della sua storia d'amore con Matteo Salvini. Per loro un commiato, per te una svolta nella popolarità?
"Prima di quella vicenda erano sei anni che facevo teatro e negli ultimi due anni sempre sold out. Non mi conosceva il pubblico che non mi interessava mi conoscesse. Per me non è stata una svolta. Stavo e mi sto tutt’ora rivolgendo al pubblico che si interessa alla poesia, a concetti come la tenerezza e la delicatezza. Avere un pubblico leghista non mi interessa, non lo voglio. Sono arrivati in massa e chi doveva interagire con me ha interagito, chi doveva insultarmi mi ha insultato, chi ha capito che non ero uno di loro se ne è tornato a casa. È stata una rottura, questo è vero. Dopo quel momento ho cominciato a vedere che ci sono persone che non stimano il mio lavoro, che se ne fregano della poesia. E in fondo è giusto che sia così, perché anche la poesia se ne frega di loro".
Ricordi la prima poesia che hai scritto?
"Salto tutta la parte delle elementari, quella dei versetti dedicati alla mamma o al papà. Il mio primo lavoro che voleva essere una canzone rap, visto che ai miei tempi uscivamo in strada ed era quello il nostro jazz, si chiamava 'Sdraiati sopra il mare'. Era dedicata alla mia futura fidanzata. La usai come corteggiamento e a sorpresa funzionò. E così capii che se sai usare bene le parole puoi arrivare dove la bellezza non ti ha graziato".
In passato sei stato etichettato come “il poeta dei millennials”. Un’altra definizione riduttiva?
"Credo che il giornalista del Corriere si sia sbagliato. Forse voleva scrivere 'il poeta del millennio', ma purtroppo a un certo punto gli è finito l’inchiostro e ha mozzato la parola. Sono definizioni utili ai titoli di giornali che non mi interessa leggere, che lo fanno solo per un click o per provocare. Se fosse venuto a un mio concerto, o avesse visto chi compra i miei libri, si sarebbe accorto che è pieno di 35-40enni. Non so dove abbia preso questa notizia falsa, chissà. È vero che ci sono anche tanti giovanissimi, ed è l’aspetto che mi rende più orgoglioso, perché nonostante vivano una fascia di età ribelle della loro vita riescono comunque a soffermarsi a leggere un libro di poesie. Per questo sono convinto che qualcosa da salvare c’è rimasto. Non dico che debba essere solo la mia poesia. Se leggi Gio Evan o sei affezionato a Pablo Neruda, ben venga. Purché a 18 anni tu riesca a prenderti del tempo per dedicarti a della letteratura. È un miracolo, visti i tempi che corrono".
La critica fa ancora fatica a celebrare chi viene dai social. Ma la critica esiste ancora?
"La critica non mi colpisce e non mi stupisce. Più della critica ci sono le persone che criticano gli altri. Ma fermarsi al verbo 'criticare' significa mancare di rispetto alle opere che si potrebbero creare. La vedo una grande perdita di tempo. Se mi mettessi a criticare vorrebbe dire che ho smesso di lavorare nel mio. È come giocare a scacchi permettendo agli altri di prendere i pezzi bianchi: fate la mossa voi così io perderò un po’ di tempo. A me non piace perdere quel tempo".
Hai dei riferimenti poetici o letterari del passato?
"Non posso darti dei riferimenti, perché non leggo molti poeti. Preferisco di gran lunga i saggi e ogni tanto qualche romanzo, oppure i libri di spiritualità o di matematica. Diciamo che se devo fare dei nomi, sono affezionato a Pier Paolo Pasolini e Eugenio Montale. Un mio fratello è anche Artur Rimbaud. Salvo molta poesia, ma attualmente ho smesso di leggere poesia perché ho bisogno di farla io. A differenza, sarebbe come un cane che si morde la coda. I miei veri riferimenti attuali sono i contadini. Da tre anni vivo in un bosco immerso fra alberi maestosi e acque cristalline e compio lunghe passeggiate. Questa è la nuova poesia, più vicina alla preghiera. Ogni tanto mi imbatto in uno di loro che lavora e facciamo lunghe conversazioni. Vorrei salvare i loro ricordi, i rimasugli delle guerre che hanno addosso. Da quelle esperienze riesco a fare poesia, ad avere un grande senso di bilancio interiore, a pareggiare i conti della mia vita".
Se sai usare bene le parole puoi arrivare dove la bellezza non ti ha graziato
Sei un grande viaggiatore, in bicicletta hai attraversato l’India, il Sudamerica, l’Europa, in seguito tenuto molti spettacoli dal vivo, anche di strada. Come hai vissuto la quarantena e come ti approcci a questo periodo di distanziamento sociale?
"Il lockdown l’ho vissuto bene, perché avevo già scelto una vita ritirata. Sembro più un eremita che un personaggio pubblico. Quindi non mi ha traumatizzato nel quotidiano. La parte del live invece sì, sarà più complessa, anche perché stavamo pensando a un tour estivo che si è rallentato. Ma accetto questo raccoglimento interiore, non mi spiace stare da solo, anzi sto bene con me stesso, scrivo di più, faccio maggiore meditazione. Mi va bene così, accetto tutto quello che la vita ci dà in pasto. Avrà i suoi buoni motivi".
In questa emergenza, abbiamo iniziato a utilizzare molto di più certe parole o espressioni. Per esempio, l’amore è stato racchiuso nella definizione giuridica di “rapporti affettivi stabili” o con la parola “congiunti”. Tu che con le parole ci vivi, ti ci riconosci?
"La gente ha bisogno sempre di buttarla sull’ironia per esorcizzare i momenti, come è avvenuto con i meme. Io ho un rapporto affettivo stabile con me stesso. Sono al lavoro con la mia moltitudine e sto interagendo con tutte le particelle che fanno parte della mia vita. In questo preciso istante sono sposato con il bosco e devo al lui la mia fede e il mio rispetto. Quindi il mio congiunto è il bosco".
Nella tua ultima canzone “Regali fatti a mano” hai ambientato il videoclip in una comunità rom. L’hai definito “un popolo che fa della libertà e dell’arte di sapersela cavare il proprio vessillo”. Non avevi il timore di attirarti critiche verso questa scelta?
"L’ho fatto proprio per questo, perché bisogna cominciare a prendere a calci in faccia i pregiudizi. È necessario schierarsi. Ancor di più, schierarsi le idee. Lo faccio per me stesso, prima di tutto, visto che non ho intenzione di affaticarmi nel pensiero degli altri - già ne ho tantissimi miei, figuriamoci se vado ad assorbire cosa può pensarne la gente. Volevo andare a conoscere un popolo che è sempre stato denigrato e allontanato. E anch’esso si è mostrato ermetico. Appena ne ho l’opportunità vado a conoscere. Non è detto che condivida o ammiri, ma di certo rispetto".
E com’è andata?
"Ho conosciuto gente che aveva tenuta celata la propria parte di fragilità. Mi chiedevo: che quotidiano hanno? Li vediamo in giro, ma ne abbiamo soltanto informazioni spiacevoli, non se ne parla mai bene, ma in fondo ci sarà qualcosa di buono? Li ho chiamati, gli ho spiegato del progetto, mi hanno accolto e ho ricevuto una delicatezza, una tenerezza, una comprensione inaspettate. Ti guardano negli occhi quando parli e abbiamo avuto una bella comunicazione. Sono stato contento di togliermi i pregiudizi che avevo su questo popolo, perché mi avevano cresciuto così".
Hai 32 anni e la tua generazione è quella che ha attraversato la fase più acuta di distanziamento dalla politica. Tu come la vivi?
"La politica, quella che subiamo, non la percepisco. Non vedo proprio una politica. Vedo persone che fanno i loro affari. Quindi mi devo schierare, scegliendo la poetica. Penso si debba fare prima poesia e poi politica. Po-d’etica. Basterebbe un po’ di etica. Penso che nelle istituzioni, come in Camera e Senato, servano più poeti, lettori, persone che hanno vissuto, viaggiato, dei giovani freschi e vogliosi di eguaglianza e fraternità. Io ho già deciso di schierarmi poeticamente".
Quando senti dire che c’è un ritorno del fascismo, credi che il rischio ci sia?
"Su quel versante vedo dei giovani abbastanza confusi che purtroppo stanno dimenticando i valori che ci hanno preceduto. Giovani che non si interessano al dialogo con gli anziani, al ripasso della storia, che si accontentano di assorbire le due-tre cose dette da un politico arrabbiato e dai media schiavi di un sistema e che si fanno educare da una televisione sbadata. Dei giovani che si accontentano. Quindi questa situazione bisogna cambiarla. Ma si lotta solo ed esclusivamente con l’arte, con l’educazione, con la gentilezza e il buon esempio. Bisogna prenderci la responsabilità di diventare delle persone in gamba e poi far vedere al mondo come si sta al mondo".
Se domani ti chiamassero per proporti come ministro della cultura, accetteresti?
"Non accetterei, perché non fa parte di me. Sono un artista, ho bisogno di fare arte. Di screpolarmi la pelle nelle piazze, sui palchi. Ho bisogno delle mie libertà. Non voglio imporre e proporre niente a nessuno. Non è nella mia carne questa cosa. Lascio volentieri il passo a chi si sente di poterlo fare".
Se potessi reincarnarti in un personaggio storico, quale preferiresti?
"Sono convinto di essere stato ed essere tutto, quindi mi stai invitando a una divisione. Diciamo che se dovessi intraprendere un viaggio temporale, vorrei tornare agli anni di Cristo. Mi piacerebbe stargli un po’ accanto, per vedere con i miei occhi la maestria di chi ha dato la vita per gli altri".
Mi sembri una persona molto equilibrata, ma c’è qualcosa che ti fa arrabbiare?
"Bisogna intendere cosa si intende per rabbia. La collera è una energia che non mi appartiene, mai. Pratico 'la bassa voce' con qualsivoglia creatura. La rabbia invece è una energia che entra dentro, solo che in me si trasforma in dispiacere. Mi dispiaccio con l’ignoranza, il razzismo, le ingiustizie. Mi fanno rabbia, ma diventa subito tristezza. Una tristezza che mi fa punire da solo. Come Gandhi. Quando i suoi figli andavano male a scuola e tornavano per pranzo, lui non mangiava. E quando gli chiedevano il perché, rispondeva: 'Perché tu sei andato male a scuola'. Mi piace un sacco questa forza di volontà, questo insegnamento che inizia e muore dentro di noi. Cerco di praticare lo stesso atteggiamento, mi metto in punizione da solo quando percepisco delle ingiustizie. Non serve neppure piangerci sopra, sarebbe un torto alla gioia che ti puoi permettere".
Diventerò una quercia come atto psicomagico, come direbbe Alejandro Jodorowsky
E i tuoi capelli che non tagli mai, cosa rappresentano?
"I miei capelli hanno un loro pensiero. Dovresti intervistare loro. A me piace credere che stiano su perché se ne fregano della gravità, hanno ribaltato la legge e se ne sono fatta una loro: quella di essere attirati al cielo. Si innalzano come delle antenne pronte a captare i messaggi celesti. Non li taglio per questo motivo, perché so che hanno qualcosa da fare. Altrimenti starebbero giù".
Poesia, letteratura, umorismo, musica, performance. Qual è il prossimo step di Gio Evan?
"Nei miei piani c’è sicuramente di cominciare a proporre delle performance mute di posa. E poi, in anteprima, ti posso annunciare che per qualche giorno mi farò seppellire fino alle ginocchia come un albero e rimarrò in contemplazione del bosco qualche giorno. Diventerò una quercia come atto psicomagico, direbbe Alejandro Jodorowsky".
Un omaggio alla natura?
"Sì, glielo devo. A me gli alberi aiutano tanto, frequentandoli quotidianamente. Sono appena tornato dal bosco, mangio e ritorno là a scrivere. Si è formata una nuova comunicazione. Il bosco dialoga, con gli uccelli, i serpenti, gli istrici, tutto si muove quando il vento fa traballare le foglie e provoca cantilene che mi ispirano. È musica che mi aiuta a comporre. È l’unico debito che mi porterò da questa vita, devo tutto al bosco, quindi voglio esserne parte per qualche giorno".
Più che un rapporto con la fede, mi sembra che tu lo abbia con la spiritualità.
"Ho una vita molto religiosa, ma non mi appoggio a nessuna religione. Sono spirituale, cioè credo nell’amore 'che move il sole e l'altre stelle'. Poi ho tanti maestri. Nel mio tempio puoi trovare dal Vangelo alla Bibbia, dal Bagan Ajita alle Upanishad. A dividere tutto ciò è stato l’uomo, che ama dichiarare guerre. Io però non ho guerre da dichiarare. Le religioni sono come le persone che vedono la luna riflessa nell’acqua, se solo alzassero lo sguardo a vedere la luna anziché il riflesso scoprirebbero che stanno parlando tutti della stessa entità. Leggo testi sacri e vedo che ci sono tanti valori comuni da salvare. Perché andare in piscina, quando puoi andare al mare?".