Appena ho letto le anteprime e i giudizi critici entusiastici sono corso in libreria ad acquistare “L’Anniversario” di Andrea Bajani, in corso di traduzione in 25 paesi nel mondo e vincitore del Premio Strega. Leggo subito la sinossi in seconda di copertina e vengo catturato dalla storia di un ragazzo che abbandona “l’isolamento stagno” della propria famiglia, un “microcosmo concentrazionario” in “un romanzo di liberazione, che scardina e smaschera il totalitarismo della famiglia”. Ah finalmente. Qualcuno che lo scrive! Altro che “Il Giovane Holden” o tutta la storia della letteratura mondiale dove mai si è scritto di ribellione giovanile. Finalmente qualcuno che, anche senza specificarlo, ha compreso che famiglia viene dall’etimo latino “servolus” cioè “essere schiavo”. Bajani mi conquista subito quando, sfogliandolo, mi imbatto nella figura del padre: “Una costellazione di accessi d’ira, l’evidenza di una disperazione, di un quadro psichico complesso, e di un retaggio fascista negato ma sostanziale nei comportamenti”. All’inizio non capisco - eppure ho letto Freud, Jung, Lacan - ma poi tutto mi è chiaro perché “mio padre è un uomo dedito all’affermazione vittimaria di sé”. E poi “mio padre aveva infatti fondato la sua gestione del potere sull’intimidazione, sull’allusione cioè a scenari violenti che si sarebbero verificati se il nostro agire non fosse stato conforme alle sue volontà. E siccome questa sua gestione era la conseguenza di un disturbo tanto profondo quanto non diagnosticato, e rispondeva quindi a una logica allucinata che si saldava alla consuetudine patriarcale moltiplicandone gli effetti, il senso di minaccia era la costante della nostra vita quotidiana”.

Fascismo e patriarcato: c’è tutto per vincere Il Premio Strega. Anche perché ogni donna, speriamo quasi, si può riconoscere quando Bajani sottolinea: “Se non ho mai scritto di mia madre, né ho mai avuto un pensiero su di lei, è perché per farlo va scorporata da mio padre. Il che comporta un'operazione delicata, richiede un'attitudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Richiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale. Cioè puntare le parole nelle porzioni non ancora compromesse. Individuarle, isolarle dal resto, e poi incidere, fare male con nettezza”. Tutto questo mentre suo padre “aveva preso a morsi il tavolo della cucina”. Speriamo in compensato. Ma poi la riflessione: “Mi chiedo come fu possibile riprendere in maniera naturale un filo che si era rotto tanto malamente. Ma tant’è, successe. D’altra parte era un decorso sostanzialmente standard, che seguiva ogni esplosione. Per qualche pasto, mio padre condannava la tavola al silenzio, noi figli speravamo che si finisse al più presto di mangiare, e mia madre raddoppiava una sua maniera specifica di essere servile dopo la tempesta, in cui era il pentimento a dettare ogni gesto che compariva intorno a lui”. Quante caselle? Inizio a dubitare ma le recensioni incensatorie mi confortano: “La scrittura dosatissima, cauta, esatta, dilatoria”, scrive un critico prezzolato e mi fa capire che siamo inferiori a Bajani perché nessuno riesce a darci una scrittura dilatoria. Dila de che? Poi capisco che sono io lettore a essere inferiore quando non comprendo che “la cosa che più colpisce dell'ultimo, breve romanzo di Andrea Bajani, è la vastità del silenzio. O meglio, di un certo silenzio, che pare capace di moltiplicare le pagine, riprodurre le righe e far diventare quest'opera, condita di un'autobiografia sofferta ma sempre composta”. Ecco cosa manca ai capolavori: il condimento.

Ma alla fine lo compro perché “con una lingua inesorabile e raffinata, Andrea Bajani piazza nel racconto della famiglia un ordigno che non lascia scampo, e lo fa brillare nel suo libro più vero" (Donatella Di Pietrantonio). Piazzare un ordigno mi esalta, anche perché subito dopo capisco che è un libro corale: “Una scrittura limpidissima, libera, che riscatta il costo di salvarsi da soli” (Helena Janeczek). Vado alla cassa e ci ripenso. Ne compro due perché questo libro è “affilato come una resa dei conti, struggente come un addio” (Antonio Scurati). Ero rimasto alla resa dei conti di manzoniana memoria, ma adesso che è diventata affilata ne compro tre. Non si sa mai che mi serva in uno scontro con un fascista totalitarista che si potrebbe nascondere nella mia famiglia.
