Succede, a volte, che qualcuno riesca a far passare tutto il casino che ha dentro attraverso una forma. Succede raramente. E quando succede, è come se il rumore si organizzasse da solo, come se dopo anni di accumulo disordinato e sbavature geniali, qualcuno trovasse il coraggio di selezionare, di rinunciare, di affermare: “questo resta, questo no”. Uomini Cani Gabbiani è proprio questo: non un debutto e nemmeno un punto d’arrivo, ma una stretta definitiva sul caos. È come se Le Feste Antonacci, dopo aver costruito per anni un gigantesco altarino di incompiuti, frasi perse, groove storti e idee troppo grandi per essere contenute, avessero finalmente aperto le finestre e lasciato che entrasse l’aria. Il disco che ne esce è una cattedrale sonora piena di crepe, ma perfettamente abitabile.
Il suono vibra come qualcosa di sacro e profano allo stesso tempo. È pop solo per un attimo, e proprio quando sembra di potergli dare un nome, si scioglie in qualcosa di altro: funk disossato, prog analogico, disco lisergico, jazz da cameretta, psicosi tropicale. Dentro ci sono i padri spirituali, Battisti, Battiato, Beatles, Bach, ma anche tutta la polvere raccolta sotto i tappeti della musica italiana. Il loro culto delle 4B, come lo chiamano loro, è più una maschera che una mappa. Perché sotto c’è l’eresia, la mutazione, l’urgenza di raccontare il mondo con strumenti rotti, con strumenti propri.
Ma è nei testi che accade il miracolo più grande. Nessuna linea retta, nessuna morale, nessuna strofa che “chiude il senso”. Qui si balbetta, si urla, si ripete, si prende fiato e poi si sputa tutto. Il linguaggio è fatto a brandelli, i versi si rincorrono come pensieri durante un attacco di panico, o come una mente geniale che non riesce più a contenere la propria lucidità. Eppure non c’è mai compiacimento: solo una spudorata, disarmante, verità. Un bisogno disperato di dire. Anche quando non c’è niente da dire. Anche quando ormai nessuno ascolta.

Ora è meglio di prima è un mantra, una preghiera o forse un avvertimento. L’inizio del disco è già il suo riassunto: amore come unica via di salvezza, e il resto che crolla addosso. È una canzone che sa di cenere e di miracolo, come se stessimo ascoltando una festa di fine mondo. Ma senza isteria. Solo con quella consapevolezza tragica che hanno i bambini quando capiscono che gli adulti non sanno niente. P.U.L.P. segue come un viaggio dentro un labirinto chiuso a chiave, dove la moltitudine è una creatura a più teste che balla sull’orlo del precipizio, e il groove si torce fino a diventare nausea.
C’è poi Uomini Nudi, che suona come una dichiarazione d’esodo: liberarsi dalle giacche, dalle etichette, dai nomi e dalle foto profilo, e restare nudi. Non per provocare, ma per tornare a esistere. La musica si finge allegra, ma sotto c’è uno strappo. E Porgi l’altra guancia, invece, è la canzone che più assomiglia a un predicatore stanco, armato solo di un synth sfatto e di un sax comprato online, che predica amore a gente che ride per noia. C’è qualcosa di tragico e grandioso in questa resa gioiosa. Come quando accetti il dolore e ci balli sopra, senza nemmeno più bisogno di capire da dove viene.
Aquekete è la pausa del cane. Un intermezzo senza parole, zoppo e lirico, che ti porta a guardarti dentro. E dentro, inutile dirlo, non c’è niente di buono: solo storie interrotte, stanche, senza lieto fine. Ma poi riparte tutto con Siena Firenze, che è un proiettile in corsa, una cronaca da autogrill, il manifesto gabber/verista di questa nuova forma di cantautorato. Qui la velocità non è estetica, è disperazione. Come se non potessimo più fermarci. Come se fermarsi fosse già morire.
Il disco si chiude con Uomini, cani, gabbiani, un brano che pare uscito da una radio dimenticata nel futuro. C’è un senso di memoria e di rovina, come se si stesse ascoltando il making of di qualcosa di importante, ma troppo tardi. È una serratura: ci affacciamo dentro il processo, vediamo il laboratorio, ci sentiamo parte di un segreto. E quando finisce, ci lascia con quella sensazione stranissima di avere ascoltato qualcosa che esiste davvero, ma solo in quel momento lì. Come quando un sogno ti sveglia e poi svanisce.
Ma forse, il vero centro del disco non è nessuna delle sue canzoni. È quel gesto originario: due persone che decidono di mettere ordine nel caos. Di scegliere cosa resta. Di costruire una casa con le proprie mani. Ogni nota, ogni errore, ogni arrangiamento, ogni ronzio è opera loro. Non c’è nessun filtro, nessun aiuto esterno, nessun compromesso. E in un’epoca in cui tutti si assomigliano, Uomini Cani Gabbiani suona come un atto radicale di identità. È un disco che non ha paura di essere troppo. Troppo strano, troppo colto, troppo pop, troppo lungo, troppo poco. Ma è proprio per questo che funziona. Perché non ha bisogno di piacere. Vuole solo sopravvivere.
