Quando Fabri Fibra parla, non si può che tacere. E nel salotto di Supernova, con Alessandro Cattelan, l’icona del rap italiano ha fatto quello che sa fare meglio: spaccare tutto. A partire dal mercato discografico che oggi “si basa su un’applicazione dedicata alla fotografia, popolata da egomaniaci, scrocconi e gente che ti chiede solo messaggi per il cugino. Se avessi saputo che era così, probabilmente avrei fatto altro”. Che detta così sembra un meme, ma è tutto maledettamente vero. Fibra parte dal racconto di quando è arrivato a Milano dalla provincia marchigiana. Niente retorica del frigo vuoto o della strada. Casomai, un problema di parcheggi: “Quando sono arrivato a Milano ero già famoso, avevo due copertine, ma non avevo un euro. Ho vissuto in un monolocale per due o tre anni”. Cattelan, come un amico che cerca la verità nei dettagli, gli chiede che auto avesse. Risposta secca, senza fronzoli: “Una Fiat Punto Sole. L'adesivo sulla fiancata era tutto ciò che aveva di solare”. Ma è nel ricordo di quando ha firmato con la prima major che Fibra spiega tutta la potenza simbolica della città: “Ero arrivato in auto in centro a Milano, con la cartina, e ho parcheggiato davanti al Castello Sforzesco. Quando sono uscito non avevo nemmeno la multa e ho pensato: Milano è una figata”. Quando gli dicono, in diretta durante la registrazione, che l'album è arrivato primo in classifica, Fibra impazzisce. “Primi di tutto? Vaffanculo!” e salta in piedi. “Vuol dire che tutta la gente sta parlando del disco, nel bene e nel male. Quando fai successo non puoi sbagliare più. E va bene che dobbiamo fare musica per i fan, ma non dobbiamo sottovalutare la potenza dei numeri”.

Poi però si entra nel cuore del presente, nello snodo generazionale che separa la sua idea di musica da quella delle nuove leve. “Io magari sparisco per un anno poi esco con un album che ha un concept, invece gli artisti giovani fanno una canzone a settimana, ogni venerdì, un po' tutte uguali tra loro, ma perché la loro testa lavora così. Loro hanno tanti piccoli episodi, io porto un film”. Non è solo una questione di stile, ma di visione del mondo: un rapper, per Fibra, deve “raccontare il proprio punto di vista”, non solo produrre hit. E quando gli chiedono se i rapper oggi siano i nuovi cantautori, lui risponde con la precisione di chi sa bene cosa vuole difendere: “Ogni volta mi oppongo a questa cosa, perché quello che voglio fare è dare dignità al rap, farlo esistere. Oggi il rap è qualcosa in più rispetto al cantautorato, è attuale. Nel passato non c'era tutta questa pressione per i numeri”. Poi la stoccata, elegante ma definitiva: “Il cantautorato presuppone che l'artista suoni anche lo strumento: io dovrei stare lì con la chitarra a fare De Andrè. Non voglio togliere nulla ai cantautori, ma era un altro periodo storico”. Meno male che questa volta non ha citato se stesso, perché la risposta l’aveva già scritta in Vip in Trip: “Ma quale cantautore, vaffanculo al rallentatore”.

Poi, spazio all’intimità, “l’incendio personale da spegnere”, come la canzone sul padre presente in Mentre Los Angeles Brucia. “La prima parte del disco è leggera, mi serve per sdrammatizzare, però poi a me non frega tanto del successo, dei numeri, degli aperitivi a Milano. Ho altre cose a cui pensare”. E su L’Avvelenata di Guccini, la ripresa nel suo album è arrivata in maniera del tutto naturale: “Era il mio sentimento iniziale: pensate che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni? È un po' come dire: sono solo contro tutti, andiamo in culo a questa industria”. La chiosa è sulla salute mentale dei cantanti. Quella vera, non da Instagram: “Devi essere forte psicologicamente. Io sono arrivato al punto in cui vado al supermercato e il salumiere mi dice: guarda, mi sono piaciuti tutti i pezzi tranne quello. Ci ho litigato: ma chi cazzo te l’ha chiesto? Io mica vengo a dirti che mi piacciono tutti i salumi tranne quello”. E ha ragione. Perché oggi, in un’epoca in cui anche l’odio è algoritmico, chi non è abbastanza solido finisce per “togliersi la felpa col cappuccio per iniziare a cantare col vestito figo”. Perché “il rap italiano ha un livello di hating altissimo”, e chi non regge, si trasforma in ciò che il mercato vuole. Ma lui no. Fabri Fibra resta Fabri Fibra.
