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Abbiamo ascoltato "Mentre Los Angeles brucia", il nuovo album di Fabri Fibra, ma com'è? Testamento emotivo e maturità dolorosa, senza redenzione. E le collaborazioni e il rap italiano dopo di lui…

  • di Alessio Simone Iannello Alessio Simone Iannello

  • Foto: Karim El Maktafi

20 giugno 2025

Abbiamo ascoltato "Mentre Los Angeles brucia", il nuovo album di Fabri Fibra, ma com'è? Testamento emotivo e maturità dolorosa, senza redenzione. E le collaborazioni e il rap italiano dopo di lui…
Fabri Fibra torna con "Mentre Los Angeles brucia", un disco crepuscolare che segna una svolta esistenziale dopo vent'anni di carriera. L'album abbandona le urla e la provocazione per immergersi in un buio silenzioso fatto di confessioni crude. Fabri Fibra si ritira dalla battaglia senza vincitori, bruciando tutto dietro di sé…

Foto: Karim El Maktafi

di Alessio Simone Iannello Alessio Simone Iannello

Dopo undici dischi solisti, centinaia di versi iconici, una carriera in cui ha già raccontato tutto, e forse anche troppo, ci si potrebbe legittimamente chiedere cosa abbia ancora da dire Fabri Fibra. Un artista che ha sempre fatto del dirsi senza filtri il suo marchio di fabbrica, che ha scolpito nella memoria del rap italiano immagini feroci di disagio adolescenziale, rapporti tossici, senso di inadeguatezza e paranoia sociale. Dall’esplosione di Mr. Simpatia al terremoto pop di Tradimento, Fibra ha costruito un immaginario radicale e inconfondibile, fatto di odio, ironia, urla e confessioni, capace di tenere insieme lo squallore del reale e la distorsione grottesca del personaggio.

Eppure, Mentre Los Angeles brucia riesce ancora a stupire. Non perché contenga qualcosa di mai sentito prima, ma perché riesce a scendere dove finora Fibra si era solo affacciato: in un buio esistenziale senza grida, senza clamore, senza nemmeno più il desiderio di essere compreso. È un disco postumo da vivo, un testamento emotivo da parte di un uomo che ha passato vent’anni a combattere contro se stesso, contro l’industria, contro il pubblico, e che adesso si ritira da quella battaglia senza vincitori.

“Mio padre è morto, non l’ho mai visto sorridere”, dice in Mio padre, una delle tracce più dure del disco. Ma il punto non è la morte del padre biologico: è la distruzione di una figura simbolica, di un modello assente che ha generato solo rabbia e catene. Quella rabbia che negli anni Fibra ha convertito in flow, rime, iconoclastia, qui sembra essersi spenta. Non è più esplosiva, è corrosiva. Mentre Los Angeles brucia non è un album arrabbiato, è un album esausto.

Fabri Fibra Mentro Los Angeles Brucia recensione
Fabri Fibra Karim El Maktafi

In Figlio, scrive al figlio che non avrà mai, una delle immagini più toccanti e rivelatrici dell’intero disco. Se nel passato l’artista sembrava incapace di accogliere, qui ammette esplicitamente di non poter trasmettere nulla, se non il peso stesso della sua condizione. “Tieniti lontano dall’alcol / ti renderà più lento e stupido come me in questo momento”: non c’è metafora, non c’è filtro. Solo consapevolezza nuda.

È difficile ascoltare questo disco senza pensare a Mr. Simpatia, ma i due lavori non potrebbero essere più distanti nella forma. Se nel 2004 la violenza era viscerale, comica, disturbante, qui è gelida, trattenuta, quasi silenziosa. Non urla mai, ma scava. Non accusa, ma lascia che il vuoto risponda da sé. La maturità di Fibra, oggi vicino ai 50 anni, non è un valore morale, ma una prospettiva narrativa: Mentre Los Angeles brucia non cerca di insegnare nulla, non cerca nemmeno di redimersi. Si limita a descrivere ciò che è rimasto quando tutto è stato bruciato.

Il brano che dà il titolo all’album è emblematico. Nasce da una frase sentita al telegiornale – “Mentre Los Angeles brucia è morto David Lynch” – e contiene tutto il paradosso emotivo dell’album: la decadenza della cultura, l’indifferenza dell’informazione, l’ironia tragica di un mondo che brucia mentre ci distraiamo. È una canzone visiva, quasi cinematografica, dove il beat sembra una colonna sonora ambient per la fine del mondo. Musicalmente, il disco è coerente con la sua poetica. Niente banger da club, niente hit obbligatorie. La produzione (curata principalmente da Marz & Zef) è minimale, elettronica, spesso scura. Si avverte la volontà di togliere, di svuotare, di lasciar spazio ai silenzi più che ai bassi.

Un dettaglio interessante è l’uso dei campionamenti, scelti con cura e spesso nascosti sotto strati di produzione: Mio padre, ad esempio, si costruisce su un loop malinconico tratto da Piano Joint (This Kind of Love) di Robert Glasper, mentre Figlio si apre con un frammento emotivo dal film The Road (2009), che amplifica il senso di abbandono e desolazione. C’è poi l’impatto imprevisto ma potentissimo de L’avvelenata di Francesco Guccini, che Fibra riprende e reinventa in Avvelenata come una dichiarazione di poetica e disillusione, perfettamente coerente con lo spirito dell’album: il disprezzo verso il sistema, la solitudine di chi scrive fuori dal coro, il rifiuto della messinscena culturale. In Vivo riprende invece il brano omonimo di Andrea Laszlo de Simone uno degli artisti più interessanti della nuova scena italiana attuale

Alcune strumentali sembrano costruite per sostenere, più che potenziare, la voce di Fibra: una voce stanca, rauca, che non cerca più di dominare il beat ma di sopravvivergli. Anche i featuring rispecchiano questo dualismo tra passato e presente. Tredici Pietro in Che gusto c’è aggiunge uno sguardo generazionale fresco ma rispettoso; Massimo Pericolo e Gaia in Salsa piccante portano in dote la loro ambivalenza tra pop e disagio. Noyz Narcos in Sbang è l’unico vero ritorno alle origini, mentre Joan Thiele regala un’atmosfera sospesa a Milano Baby, uno dei momenti più evocativi.

A chiudere il disco la nuova versione di Verso altri lidi chiude l’album con un carico di nostalgia e riflessione che si fa quasi fisico. Riprendendo il titolo e il concept del brano storico del 2002, Fabri Fibra mette in scena un dialogo serrato tra il suo passato e il presente. La traccia è una sorta di ponte emotivo e temporale che lega il giovane rapper che sognava di fuggire e reinventarsi a un uomo quasi cinquantenne che, pur consapevole delle ferite e delle rinunce, continua a cercare un senso e una via d’uscita.

La domanda implicita in tutto il disco è: che ne sarà del rap italiano dopo Fibra? La risposta, amara ma lucida, è che forse è già iniziato un tempo in cui Fibra è fuori da quel contesto. Non perché non sappia più rappare, il livello tecnico è ancora altissimo, ma perché non vuole più farlo per gli altri. Non vuole competere, non vuole convincere, non vuole educare. Ha smesso di credere nel meccanismo.

Fibra si guarda intorno e vede un’industria che ha fagocitato tutto ciò che lui ha cercato di distruggere. Vede “figli” che fanno musica senza sapere da dove vengono. Vede un pubblico sempre più superficiale, algoritmico, irrequieto. E allora si ritira, ma non in silenzio: lo fa bruciando tutto dietro di sé, lasciando solo fumo e domande. Mentre Los Angeles brucia non è un disco che piacerà a tutti. Non è fatto per piacere. È un’opera cupa, spietata, a tratti desolante, ma profondamente sincera. È Fabri Fibra senza maschera, senza bisogno di shock, senza neanche più il desiderio di essere ascoltato.

È un album crepuscolare, di quelli che si scrivono alla fine di qualcosa. Ma in questa fine, paradossalmente, c’è la sua forma più pura. Nessun personaggio, nessuna provocazione, nessuna scorciatoia. Solo un uomo che guarda il mondo bruciare e decide di raccontarlo senza filtro. Perché in fondo, dopo tutto, a chi resta in piedi tra le macerie, non resta che il compito di testimoniare.

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