Abbiamo intervistato Scandar Copti, regista palestinese e vincitore del premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia con Happy Holidays, il suo nuovo film da oggi nelle sale italiane. Un film nel film, per l’esattezza. Famiglie diverse, israeliane e palestinesi, dinamiche da commedia con tratti inquietanti da film horror. Dentro ci sono sesso, amore, tensioni. E soprattutto scontro: è questa la parola che Scandar Copti ha ripetuto più volte, parlando di legami, di generazioni, di vecchi e giovani, ma anche di ciò che sta accadendo oggi nella sua terra, che riguarda anche la storia di No Other Land. Ecco cosa ci ha raccontato, con parole forti e concetti che non lasciano spazio all'interpretazione e di cui, naturalmente, si assume la responsabilità.

Il film ritrae una famiglia complessa, fatta di relazioni difficili e compromessi. Dopo averlo realizzato, cosa hai compreso sul concetto di famiglia?
È una domanda bellissima. Credo di avere avuto, inizialmente, una visione molto specifica di come dovrebbe essere una famiglia e del perché le famiglie siano come sono. Gli scontri al suo interno, di solito, hanno a che fare con la definizione della propria identità: chi sei e chi vuoi diventare. I contrasti all’interno delle famiglie, o di qualsiasi gruppo, riguardano proprio queste dinamiche dell’individuo, una persona che si percepisce come buona, come una brava persona, ma la sua identità è qualcosa di profondamente individuale, che desidera costruire da sé. Tuttavia, questa identità è limitata dalle regole e dai valori che il gruppo più ampio, in questo caso la famiglia, impone. Questi valori, spesso ereditati, raramente vengono messi in discussione. Eppure, sono proprio quelli che regolano la famiglia, il gruppo, la società nel suo complesso. Esistono criteri molto netti su cosa è giusto e cosa è sbagliato, anche in base al genere, che però accettiamo passivamente: non li interroghiamo, li interiorizziamo, li normalizziamo. E finiamo per crederci davvero. Capisci allora che il gruppo più grande, al di fuori del concetto stesso di famiglia, può anche punirti se non ti comporti come vuole, se non rispondi alle sue aspettative. La famiglia, invece, vuole proteggere i suoi membri. E chi è incaricato di questa protezione? Le figure con autorità, i genitori. Ma, nel farlo, spinti dall’amore, dalla cura, e anche dal fatto di non mettere in discussione se stessi o ciò che hanno ereditato, finiscono per alimentare il conflitto. Il mio punto di vista non è cambiato radicalmente, ma ora capisco che, proprio come succede alla protagonista del film, nel momento in cui lei spinge un po’ più in là i limiti, e crea un conflitto con la madre, quello è l’inizio di una vera riflessione su quei valori ereditati.
Basel Adra e Yuval Abraham hanno vinto l’Oscar per il miglior documentario con No Other Land, ambientato a Masafer Yatta. Basel ha dichiarato: “Ora tutto è peggio.” Cosa significa per un regista vedere la propria opera premiata mentre la realtà che racconta continua a peggiorare?
Sì, penso che abbia detto la verità quando ha affermato che è tutto peggiorato, e sono d’accordo. È peggiorato perché ormai è tutto normalizzato. È peggiorato perché Israele può fare quello che vuole, con il sostegno del resto del mondo. Possono attaccare un Paese intero e il mondo li appoggia. Ridurli alla fame. È per questo che sta peggiorando, ed è senza fine quando non c’è nessuna forza che dica: “Fermatevi, non è giusto”. Il fatto che abbiano ricevuto quel premio, ma che quelle stesse persone non avrebbero rilasciato inizialmente una dichiarazione quando uno dei registi è stato picchiato e arrestato… beh, non ci dà molta speranza. Ma tornando indietro, dobbiamo riconoscere che siamo sempre stati su una traiettoria che porta al genocidio. È sempre stato così. La Palestina è stata occupata, l’espulsione di 750.000 persone, la distruzione di circa 400 villaggi. Ci sono sempre stati eventi terribili: il massacro di Kufr Qasim nel '56, e tanti altri. Esistono più di 65 leggi razziste contro i palestinesi all’interno di Israele. E stanno accadendo cose orribili, non solo a Gaza: migliaia di persone sono state espulse dalle loro case in Cisgiordania, centinaia di abitazioni distrutte. Non succede solo a Gaza. Quindi sì… non so davvero cosa dire.

C'è stato un tempo in cui il cinema era apertamente antimilitarista e pacifista. Penso a capolavori come Johnny Got His Gun di Dalton Trumbo negli anni Settanta. Il cinema può ancora essere una forza per la pace oggi?
Se il cinema può essere una forza di pace oggi… io ho speranza. Non sono nella posizione di dire 'no', però oggi c’è così tanta competizione nel socializzare con le persone e nel far passare idee, che è difficile pensare che solo il cinema possa riuscirci. Anche perché il resto non lo sta facendo. I media mi sembra che spingano verso il fascismo, sostengano tutte le atrocità che stanno accadendo. Ma noi esseri umani siamo strani, no? Per anni i bianchi negli Stati Uniti hanno pensato che schiavizzare gli africani fosse accettabile… e poi qualcosa è cambiato. Ma per avere quel cambiamento serve qualcosa di drastico, serve una leadership. Certo, possiamo attribuire la fine della schiavitù a un essere umano, alla fine dei conti, ma io oggi non vedo queste persone. Ultimamente ci sono stati alcuni movimenti, tipo in Belgio, Irlanda, forse un po’ in Spagna… che stanno provando a fare qualcosa, con le sanzioni, parlando, persino pronunciando la parola genocidio. Altri Paesi invece no. Quindi sì, c’è tanta 'competizione' per il cinema. Ma ho speranza, anche se fosse una sola persona. È successo anche con Happy Holidays. Una spettatrice israeliana mi ha detto: “Non avevo mai visto questa attività nelle scuole, quella di scrivere lettere ai soldati. Pensavo fosse una bella cosa, un modo per insegnare empatia e appartenenza, difendere il proprio Paese… e ora, dopo il film, mi rendo conto che è orribile quello che stiamo facendo.”
Nel tuo commento al film a Venezia, hai scritto: Durante gli anni universitari ho osservato schemi comportamentali simili nella società israeliana, dove rituali e tradizioni vengono sfruttati per sostenere il patriarcato e la militarizzazione della società. Com’è invece la società palestinese da questo punto di vista?
Com’è la società palestinese? Penso che il film sia critico anche verso di noi, perché credo che per provocare un cambiamento servano due cose: una è mettere in luce un problema, esporlo, come fa il film, perché molte persone non sanno nemmeno che c’è un problema, non sono consapevoli che altri stanno soffrendo. E sto parlando del patriarcato nella società palestinese. Quindi questa è una cosa importante da fare. Ma è vero che le tradizioni sono molto forti, soprattutto nella generazione più anziana. E il patriarcato è la forza dominante, praticamente in tutto. Le donne non sono solo controllate culturalmente, su cosa possono o non possono fare, ma anche economicamente. Il sistema lo permette. E penso che, se capiamo davvero che tutto questo fa male a tutti, alla fine, vediamo che è direttamente collegato anche alla nostra liberazione, da tutto. Il nostro patriarcato non ci permette di liberarci, nemmeno politicamente. Non sto dicendo che sia solo quello il problema, ma le due cose devono andare di pari passo. E il film lo mostra, alla fine, non dirò la scena, ma è proprio lì che si vede. Perché non puoi scegliere da cosa liberarti. Devi lottare per la tua libertà da tutto ciò che ti opprime. E non basta che una sola persona si liberi. Non possiamo essere liberi finché non lo siamo tutti, da tutto. È così che vedo il collegamento.
Qual è il commento più bello che hai ricevuto a Venezia mentre presentavi il film?
A Venezia non ricordo molto perché è stato tutto molto travolgente. C’erano i miei genitori, alcuni attori… e nessuno conosceva la sceneggiatura, nessuno sapeva davvero cosa fosse il film. Ma c’è stata questa donna, che non conoscevo, credo fosse araba, forse libanese, non ne sono sicuro. Mi ha detto: “Io sono Fifi, ma ho anche paura di diventare Hanan.” Aveva tipo 55 anni. L’ho trovato potentissimo. Quando era giovane era Fifi, ora è madre. E ha detto: “Ho paura di diventare Hanan. Grazie per avermi mostrato cosa può diventare Hanan.” Un commento davvero molto potente da ricevere.
Il tuo film è stato ritenuto molto libero. E pensando alla parola “libertà”… ti chiedo: quanto è importante per te essere realista nella costruzione del film, anche considerando che oggi siamo abituati a cinema, serie e altri contenuti molto artificiali?
Penso che l’importanza del realismo nel mio film venga proprio dal motivo per cui faccio cinema. Non mi interessa tanto il cinema come forma estetica o per tutti gli elementi “belli” che porta con sé. Io faccio un film per evidenziare un problema che mi disturba, e cercare di stimolare un pensiero su di esso. E voglio raggiungere il mio pubblico. Voglio arrivare ai palestinesi, agli israeliani. E per farlo voglio parlare loro “alla pari”. Per questo uso attori non professionisti, tutto è improvvisato. E queste improvvisazioni portano realtà, perché non siamo perfetti: balbettiamo, ci ripetiamo, ci sovrapponiamo, e per me è importantissimo. Quando lavori con persone reali, che non hanno un copione, loro si ascoltano davvero, perché non sanno cosa verrà detto. E questo è fondamentale, perché il pubblico si riconosce. Non vede attori bellissimi e perfetti con dialoghi scritti in modo brillante. Vede se stesso. Anche la struttura del film segue questa mia filosofia. Non voglio creare antagonisti. Non mi interessa dare colpe. Voglio mostrare che siamo bloccati in un sistema fondamentalmente corrotto, e dobbiamo metterlo in discussione. Siamo esseri umani buoni, mossi da ciò che crediamo giusto… ma non ci rendiamo conto che quello che facciamo ferisce gli altri. Per questo ho creato una struttura dove seguiamo i protagonisti dall’inizio alla fine. Viviamo con loro, capiamo le loro motivazioni… e quando fa qualcosa di orribile, dal nostro punto di vista, proviamo conflitto. Ci chiediamo: “Aspetta, ma io la amavo… ora la odio solo perché Fifi ha fatto questo? Com’è possibile?”. E mi interessa molto anche capire come vengono prese le decisioni, e come i pregiudizi, il pensare di capire tutto, porta a scontri e dolore. La struttura del film inganna un po’ il pubblico. All’inizio si vede tutto da una prospettiva e si arriva in fretta a una conclusione. Poi si cambia prospettiva e si pensa: “Aspetta… ho frainteso tutto.” E magari ti rendi conto che hai frainteso anche molte cose nella tua vita. Magari le tue convinzioni ti hanno portato a ferire gli altri, invece di avviare un dialogo.
Libertà, realtà individuale, realtà cinematografica, questo è anche il cinema di Nanni Moretti (con le dovute distinzioni) . Cosa significa per te aver presentato il tuo film al Sacher?
Prima ancora di presentarlo tremavo. Ho chiesto dieci volte a Mariana: cosa mi metto? Cosa devo dire? Per me è il più grande onore che possa ricevere da una proiezione, perché ammiro un tipo di cinema che io non so fare, che so di non poter raggiungere. E ammiro il cinema d’animazione o quello che sperimenta realtà diverse anche per la varietà delle cose che propone. Io faccio principalmente una cosa sola, e vorrei essere divertente, vorrei essere folle come lo è lui in alcuni dei suoi film. Sì, quindi è davvero un grande onore.
