Il funerale romano, tutto romano, capitolino, inenarrabile di Alvaro Vitali… Alvaro come “Amarcord”, Alvaro come Pierino, come cameriere trasteverino in “Profumo di donna” di Dino Risi, Alvaro e ancora Alvaro consustanzialmente felliniano, quasi tirato fuori da uno schizzo per il “Marco Aurelio”, nel Teatrino della Barafonda colpito dal lancio di un povero gatto morto, Alvaro morto a settantacinque anni, la bara di Alvaro nella torrida prima estate romana del 2025, tutto questo l’altro giorno restituiva il povero romanzo dell’ingratitudine, Alvaro diventato piccolo piccolo, piccino, bambino, minuscolo, sì, Alvaro Vitali come un Pierino ormai sottile, quasi invisibile, intatta però, sia pure nel pallore del tempo, la sua faccetta ovale, faccina a forma di oliva, sulla sua bara intanto una foto dei giorni della sua presenza alla Mostra del Cinema di Venezia, Alvaro sfiorato dalla luce alogena celeste del palmarès mancato, risarcimento per lui e per l’epopea degli umili che gli hanno voluto bene, e nei suoi film, anche in Pierino, hanno scorto il metallo prezioso della comicità, e poco importa che per alcuni fosse solo oro placcato, sottomarca di ben altro spessore… Intorno alla sua ombra ora soltanto popolo, “gente comune”, creature dolenti immobili nella certezza che ogni sua battuta, fosse anche la più “greve”, aureola di pernacchie o addirittura peti, contenesse appunto la materia preziosa della naturalezza, dell’istinto che porta ogni “’Sti cazzi” o “Anvedi chi c’è!” a misurarsi con le vette più assolute della filosofia, una sincerità tutta romana, forse anche trasteverina, e poco male che altri, mossi da sussiego, per semplice pudore lo abbiano ricordato, forse perfino con imbarazzo pensando al resto, unicamente come plastilina tra le mani di Federico Fellini ora in “Amarcord” o piuttosto in “Roma”… Un romanzo assolato dell’ingratitudine, l’amarezza che al suo funerale, nella Basilica di San Pancrazio, Monteverde Vecchio, Gianicolo, a un passo da Villa Pamphili, in queste ore su tutti i telegiornali per dovere di cronaca nera, in un giorno di caldo solido, a stringersi attorno a lui, accanto ai familiari, alla figlia, a sua moglie Stefania Corona, l’infranto negli occhi, vi fossero soltanto pochi “volti noti”, assenti ingiustificati gli altri, e questo perché Alvaro, nella sua infinita inerme bontà, avrebbe dovuto averli lì, presenti, immobili, l’ingiustizia della dimenticanza, dell’indifferenza, forse anche del razzismo di chi non riconosce al popolo una propria voce, peggio se minore, quasi che Gramsci, riflettendo intorno al canto popolare, non sia servito a nulla, mai sia venuto al mondo.

Un funerale, quello del “nostro” caro angelo Alvaro che custodiva l’atto finale di un “filone” di comicità che muove da Totò e ancora incontra Franchi e Ingrassia, la gente comune, tutte cose da far subito pensare a Pier Paolo Pasolini quando questi, nel suo “Uccellacci e uccellini” mostra le strade segnate dalle insegne proprie della toponomastica, travertino romano, degli ultimi, dove si legge: “Via Lillo Strappalenzola - Scappato di casa a 12 anni” e ancora “Via Benito La Lacrima – Disoccupato”. Carlo Verdone racconta un Alvaro amabile, un Alvaro sempre più piccolo piccolo, segnato dal pallore, lo descrive accanto a lui, presente nella sua “Vita da Carlo”, quarta serie, interprete di sé stesso, molto più di un semplice cameo, nessun omaggio alla memoria trascorsa dei cinemini come già lo “Splendid” di via Pier Delle Vigne, sempre a Roma, Alvaro con il berretto all’uncinetto blu e rosso di Pierino, rosso il pompon, blu come il cielo delle domeniche sempre domeniche, il resto, Alvaro Vitali che si racconta a Carlo citando perfino “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, cancellando, di più, smentendo così il ricordo del riso irrefrenabile di Federico Fellini quando, a una domanda su “Giulietta degli spiriti”, Alvaro avrebbe risposto: “Dottò, non c’ho capito ‘n cazzo!”. In rete, nel dolente poetico rimpianto per la sua morte, segnato da ortografia beatamente tralasciata, calpestata, ignorata, c’è modo di leggere ogni lacrima, proprio per lui, per Alvaro, per Pierino che se n’è andato: il pianto dei generici di Cinecittà, le lacrime dei suoi amici, dei suoi cari, tutti volti che se sempre Pasolini, se fosse ancora fra noi, rimetterebbe in vita, davanti a una Arriflex 35, lungo le stradine del Pigneto, là dove un tempo vivevano Accattone, Cartagine e il Balilla, via Fanfulla da Lodi, all’ombra della chiesa del San Leone al Prenestino… Un funerale sontuoso, che incredibilmente le assenze hanno reso ancora più tale; Carlo, semplicemente Carlo, Verdone, seduto in prima fila accanto a Stefania e ai figli, capo chino, occhi lucidi, mentre il prete, minuscolo d’altezza come Vitali, durante l’intera omelia lo chiama rispettosamente “il signor Alvaro” e intanto fa dono a tutti i presenti di un rosario di parole privo d’ogni inutile retorica, così perfino chi non ha mai creduto al miracolo delle ostie e al Bambinello dell’Ara Coeli ha sensazione che Dio, o il suo portinaio di fiducia, abbiano appena accolto il proprio figlio prediletto Vitali Alvaro tra le sue braccia, e in questo momento sembra che lo stiano coccolando, rassicurarlo sulle assenze altri, e a quel punto poco importa che Lino Banfi non sia venuto a presenziare, e neppure Edwige Fenech e ancor meno Gloria Guida, trattenuti altrove, perché per Alvaro c’è appunto il “popolo” che gli ha voluto bene, chi nel proprio borsello dell’evidenza comica custodisce battute come “col fischio o senza fischio?”

Alvaro Vitali che d’improvviso sembra giganteggiare come Orson Welles, mentre le sue sorelle raccontano che “eravamo sei figli”, la stessa faccia a forma d’oliva di lui, così da sembrare pantografata nello stessa polpa umana del profondo romano, e poco male che il funerale non si sia svolto nella titolata Chiesa degli artisti a Piazza del Popolo, perfino una coppia giunta da Savona ha cercato un taxi per esserci, e che fatica a Roma in questi giorni riuscire a averla vinta sulle prenotazioni del 3570, solo una bugia che “non vi lascia mai soli”, ed eccoli adesso quassù a Monteverde ad aspettare che inizi la funzione, e intanto è comparso anche Gabriele Paolini, il disturbatore, meglio, il cacacazzi mediatico, reduce da tre anni “de gabbio”, commosso anche lui, perso tra una piccola folla che nonostante un caldo solido, un caldo beduino, ha scelto di raggiungere il Gianicolo. Povero grande Alvaro, qualcuno pensava che fosse solo una mollica sulla tovaglia dell’ideale Ultima cena del cinema popolare, e invece lui, da morto, sembra adesso giganteggiare, e forse sono proprio le assenze, l’assenza di Goria Guida, Edwige Fenech e ancora dello stesso Banfi, e chissà cosa ha detto di poco amabile nei confronti di Alvaro, a rendere il “morto” immenso, gigantesco, ciclopico… A un certo punto, chi scrive, rivolgendosi a Carlo Verdone, e non sembri questo un paradosso, si lagnava del fatto che neppure Nanni Moretti, lui che abita a due passi dalla basilica di San Pancrazio, si sia presentato e non certo come gesto compassionevole, semmai come omaggio a un “pontefice” dell’arte comica, sì, Papa Alvaro I, santo ormai di questo rullo infinito e inceppato che chiamiamo cinema, e poco importa che adesso, come proprio Verdone ha detto ricordandolo davanti a tutti le spalle rivolte all’altare, proprio questo cinema, sembri adesso svanire nel nulla di TikTok che ha cancellato perfino memoria della “Dolce vita”, e questo perché a dispetto dei molti commenti apparsi in rete nei quali Alvaro veniva piazzato nella cuccia dei distinguo, comicità alta e comicità bassa, quasi che Dio non voglia far entrare nel suo paradiso chi ha fatto ridere come Pierino anche trasformando nell’oro dell’incanto, come direbbero a Roma, le non meno sante “scuregge”.

