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Abbiamo letto il libro postumo di Michela Murgia, “Anna della pioggia” (Einaudi, 2025): ma com’è? L’ultimo regalo della scrittrice, che ci ricorda come resistere al patriarcato: “Abbiamo dovuto diventare capaci di sognarci fuori dai sogni degli uomini”

  • di Viola Di Grado

5 luglio 2025

Abbiamo letto il libro postumo di Michela Murgia, “Anna della pioggia” (Einaudi, 2025): ma com’è? L’ultimo regalo della scrittrice, che ci ricorda come resistere al patriarcato: “Abbiamo dovuto diventare capaci di sognarci fuori dai sogni degli uomini”
Una raccolta di racconti scritti nel corso degli anni e pubblicati ora che Michela Murgia non c’è più. Un “testamento” non solo letterario ma politico, che ci insegna a diffidare dalle narrazioni e da quella, secondo la scrittrice sarda, più pericolosa di tutte: il patriarcato. Abbiamo letto “Anna della pioggia” (Einaudi, 2025) e abbiamo capito perché è necessario non diventare schiavi di un solo punto di vista (quello di chi ha il potere)

di Viola Di Grado

Se leggere è (anche) un atto di abbandono a una voce disincarnata— nessun’arte esige dai suoi fruitori capacità di astrazione quanto la letteratura— leggere un libro postumo lo è ancora di più: lo scrittore non solo è nascosto dal patto del lettore, che prevede la dissimulazione totale delle sue tracce (lo hanno detto gli americani per primi: show don’t tell) ma è introvabile anche nella realtà fenomenica. Certo, la fisica ci rassicura che introvabilità non significa assenza— i buchi neri rendono inaccessibile, non cancellano, e così anche la vita terrena di una persona in qualche modo permane, benchè su piani non più ricevibili dai nostri sensi— ma un libro postumo è comunque un meta-libro, perché è concluso più degli altri: non può essere spiegato da chi lo ha composto, nessuno può cercare risposte al di fuori di esso. Questo forse vale ancor di più per un’opera di Murgia, che ha sempre portato le sue idee coraggiose e la sua intelligenza insieme al corpo, al volto, preferendo la presenza alle maglie fantasmatiche dell’astrazione. Con questi pensieri mi sono avvicinata alla raccolta postuma di racconti di Michela Murgia, Anna della pioggia (Einaudi, 2025). La prima cosa che ho scoperto, leggendo, è che appartengono a fasi diverse della sua vita. Si percepisce dal respiro e dalle latitudini della scrittura, che cambiano considerevolmente da un racconto all’altro. Così, la raccolta diventa una sorta di scrigno atemporale, una ruota che gira e si ferma su un anno diverso, cambiando ritmo e stati emotivi, punteggiatura del testo e dell’anima.

"Anna della pioggia" di Michela Murgia (Einaudi, 2025)
"Anna della pioggia" di Michela Murgia (Einaudi, 2025)

Il primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, è arioso e soffice, parla di malessere ma come se sul malessere si fosse aperta una finestra che affaccia su un paesaggio mite; il secondo, Miracolo, parla di vita e morte nei termini di quando le si scopre quasi per gioco, da bambini: non come soglie rigide ma come sipari che si alzano e si abbassano su un teatro imprevedibile. Sorella e fratello allevano falene e con una preghiera riescono a resuscitarne una. Nell’originale Re di Venere, una donna si traveste da uomo per ribaltare una condizione di potere: quella intrinseca alla mascolinità patriarcale di condizionare anzi creare gli stati d’animo altrui. La protagonista del racconto non vuole più essere la donna che attraversa con circospezione e ansia il sottopassaggio della metro, ma l’entità che dà vita al sentimento di paura anziché subirlo. Così, il sottopassaggio diventa un luogo liminale di trasformazione sinistra, che non segue il desiderio ma la cupezza di una frustrazione che diventa istinto bieco di rivalsa. 

Il sottinteso del racconto si trova qualche decina di pagine più in là, in un testo saggistico, quando Murgia ci dice che “per cominciare a esistere nel nostro stesso immaginario abbiamo dovuto diventare capaci di sognarci fuori dai sogni degli uomini e cambiare completamente di prospettiva, consapevoli del fatto che per secoli ci siamo guardate l’un l’altra vedendo solo quello che avrebbe visto un uomo”. La donna di Re di Venere, anziché decidere di sognarsi fuori da un sogno maschile, decide di diventare lei la scatenatrice del sogno funesto: un incubus di forma ambigua, cattiva. Poi ritroviamo la dimensione politica, così cara a Murgia e così costitutiva del suo essere nel mondo. Murgia era un essere politico: ogni suo sguardo e sentimento era filtrato da combattività e un purissimo desiderio di giustizia. Cosa mi racconti, un’acuta riflessione sulla versione sarda del come stai—individua nella narrazione uno strumento politico con cui appropriarsi della propria identità. È il dono di uno spazio in cui raccontarsi (l’amicale cosa mi racconti, appunto) che ritaglia il perimetro in cui scegliere le proprie parole, il proprio linguaggio, la propria modalità di esistere. Se per Morante hai mangiato? era la domanda dell’amore, per Murgia it me contas? è la domanda della libertà concessa, quella che dona all’altro la nicchia di auto-racconto necessaria ad appropriarsi di sé.

Un murales di Michela Murgia nel centro storico di Napoli
Un murales di Michela Murgia nel centro storico di Napoli Ansa

Solo l’amico può concederci questa nicchia, poiché se qualunque narrazione impone uno sguardo esterno (e infatti quella diaristica impone la scissione tra l’io e il sé) nel dialogo è il gesto della domanda a essere prezioso. Non come stai, che è specifico, indagatore e dunque freddo. Come stai limita il racconto al dualismo angusto benessere/malessere, che tra l’altro nel contemporaneo è un dualismo sbilanciato, poiché siamo bombardati dagli imperativi della felicità tossica che reprime il negativo, e dunque l’unica risposta possibile diventa una bugia. Cosa mi racconti è invece uno spazio aperto, una tela bianca in cui non esistono poli positivo/negativo: è uno spazio creativo. E cosa ci racconta, dunque, Murgia, nello spazio eterogeneo e fantasioso di questo libro postumo? Che “le narrazioni ti impongono lo sguardo sulla realtà e anche se gli occhi rimangono i tuoi, i parametri con cui osservi non ti appartengono più. È il motivo per cui di storie ne servono molte, moltissime, per non diventare schiavi di un solo punto di vista sulle cose.”

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