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Per gli 80 anni di Bob Dylan
riascoltate il suo ultimo album
(anche se non lo capirete)

  • di Ray Banhoff Ray Banhoff

24 maggio 2021

Per gli 80 anni di Bob Dylan riascoltate il suo ultimo album (anche se non lo capirete)
Bob Dylan compie 80 anni, festeggiatelo ascoltando il suo ultimo disco: un capolavoro di musica e poesia fatto di pezzi lunghi e dilatati. Un disco difficile, bello come le aurore boreali, l’eclissi, il profumo della pioggia nella foresta. Che nessuno se li caga mai ma se non ci fossero la vita sarebbe uno schifo

di Ray Banhoff Ray Banhoff

Attenzione! Se parlando di Dylan qualcuno dovesse chiamarlo “il menestrello di Duluth”, mandatelo affanculo. Leggo sciatterie del genere sui maggiori quotidiani quando si accenna a quest’uomo e mi sento male per lui. Odierebbe quell’appellativo, sono sicuro. Quindi evitiamo di incensare a caso Rough and Rowdy ways, il suo trentanovesimo album in studio, pubblicato il 19 giugno 2020 all’età di settantanove anni. Parliamone: RARW non è un disco per tutti. 

Non sforzatevi di ascoltarlo perché ve lo consiglia una rivista. Sapete quanti libri sono troppo potenti per essere letti e quanti film troppo visivamente pieni per essere visti? RARW fa parte di quella schiera di opere d’arte, come Black Star di David Bowie. Non sono un fan pazzo di Dylan ma santiddio riconosco quando sono di fronte a un capolavoro e questo disco a suo modo lo è. Un lavoro del genere che viene alla luce nell’era digitale, dell’iperconnessione, delle stories da 15 secondi, è da premio. 

Si tratta di un album in cui i pezzi sono lunghi e dilatati e la voce più famosa del mondo parla in versi, fa blues, fa da crooner, citando William Blake, Poe, Kennedy e tutto il resto. Al primo accordo in battere di I contain multitudes siete già nella poesia: “Today, tomorrow, and yesterday, too, The flowers are dyin' like all things do”. Cosa diavolo è? La Bibbia? Un po’. Non a caso lo pubblica uno che ha vinto il Nobel (unico Nobel sensato degli ultimi vent’anni in letteratura? Chi ha mai letto Szymborska o si è fatto cambiare la vita da lei?).

Non è abbastanza poetico? Ecco come chiude il cerchio sul suo posto nella storia: “I’m just like Anne Frank, like Indiana Jones/ And them British bad boys, the Rolling Stones/ I go right to the edge, I go right to the end/ I go right where all things lost are made good again”. Mi emoziono solo a leggere ad alta voce questa roba in inglese. Non lo so perché. Forse perché mi pare roba destinata a rimanere, a non sparire come un castello di sabbia digitale.

Dite ad Alexa di andare in play e la casa sparisce, la provincia sparisce, la città sparisce. Resta il segno del Novecento e della nostra civiltà che ha vomitato mostri e santi alla stessa misura ed è stata la più evoluta di sempre da diecimila anni a questa parte. La morte aleggia in ogni accordo in settima minore così come aleggia in ogni bottiglietta di plastica in mare, in ogni Covid 19, in ogni disastro ambientale causato da noi. La morte e la vita sono in ogni riff di Fender Rhodes, in ogni rima e plettrata. Forse a suo modo Dylan è già morto e parla dal futuro, non canta nemmeno più.

A una domanda del NY Times ha risposto: “Penso che il corpo e la mente vadano di pari passo. La mente è lo spirito, il corpo è la materia. Come le due cose si debbano integrare, non ne ho idea. Cerco di seguire una linea retta, di stare al passo”. Che vuol dire? boh, niente. Tutto.

In RARW, Dylan ha un bel tiro, come una vecchia macchina americana che a guidarla ti senti un figo. Come una Cadillac. Ascoltate False Prophet e ditemi se non siete al volante di quella Caddi. In questo disco succede di tutto. Durante In My own version of you il poeta passa per i cimiteri e abbazie e raccoglie pezzi di corpi di donne per crearne una sua, una Frankestein dell’Amore. Quando il corpo prende vita lui assiste piangendo e ridendo allo stesso tempo. Ecco l’amore malato. Ecco l’uomo morente.

Poi c’è una delle canzoni più belle che Dylan abbia scritto che si chiama I’ve made up my mind to give myself to you in cui dice: “I traveled a long road of despair/ I met no other traveler there/ Lot of people gone, lot of people I knew/ I've made up my mind to give myself to you”. Non avete ancora pianto?

Ma niente è come Black Rider. Far west, America, punto di non ritorno. Il poeta è di fronte a un giustiziere, a un uomo nero, a un esecutore. È la resa dei conti. “Black rider, black rider, all dressed in black I'm walking away, you try to make me look back/ My heart is at rest, I'd like to keep it that way/ I don't wanna fight, at least not today/ Go home to your wife, stop visiting mine/ One of these days I'll forget to be kind”.

Il lato b del disco (concetto assurdo visto che non esistono più i dischi, ma qui si) contiene una sola traccia, la già epica Murder most foul che dura 16 minuti e 55 secondi. Nessuno ha 16 minuti e 55 secondi per ascoltare una canzone, per cui concedetevela quando sarete pronti. C’è il cervello di Kennedy spappolato che vola sulla bauliera, c’è la colpa di un Paese dove i cattivi sono davvero cattivi e le conseguenze cadono pure sui nostri corpi. Quel foro in testa ha pesato sugli equilibri mondiali più di quanto crediate. Solo il poeta lo poteva rendere sacro: “Shot down like a dog in broad daylight/ Was a matter of timing and the timing was right/ You gotta pay debts, we've come to collect/ We're gonna kill you with hatred, without any respect”.

Non so che altro dire, this shit is perfect. Non la capirà nessuno ma va bene così. È come le aurore boreali, l’eclissi, il profumo della pioggia nella foresta, nessuno li caga mai ma se non ci fossero la vita sarebbe uno schifo.

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