In un mondo che vuole convincersi di aver dimenticato Dio (ma così non è, visto che circa il settanta per cento della popolazione mondiale si ritiene ancora credente), sono pochi coloro che al posto dell’indifferenza si posizionano al cuore di una sfida di questo genere: “Oh Dio, / non accogliermi”. A scriverlo è Cody Franchetti in L’archeolatra e i tifosi del futuro (La Nave di Teseo, 2025). E ancora: “Oh Dio, / che ambisco / tu mi strazi”. Il riferimento di Bernard Henri-Lèvy era il socialismo, le utopie dell’ottimismo, le “barbarie dal volto umano”, ma si potrebbe dire lo stesso di ciò che in questa breve raccolta Franchetti tenta di demolire. Un progressismo che Franchetti pare reputare incivile, come lo reputerebbero tale Nietzsche o, che so, Nick Cave. Da qui l’idea che “questo smontaggio”, questo esistere “spoetizzato” sia una sciagura che, nonostante tutto, va indagata. Ma da chi? Dall’adoratore dell’antico, e cioè l’archeolatra, lemma che occorre, secondo Franchetti, due volte nella storia della letteratura italiana, in due saggi sul “conservatorismo” di correnti religiose, tra cui i giansenisti francesi. Cos’è il poeta, dunque? Un archeolatra, un adoratore dell’antico? O, piuttosto, un folle che, come il protagonista della vicenda filosofica di Nietzsche, grida nel mercato, dà l’allarme? O archeolatra e folle sono la stessa cosa?
E l’allarme rispetto a cosa? Rispetto all’oblio calcolato, o meglio programmato, che la nostra società sembra voler imporre agli individui. E invece si dovrebbe ricercare “quella luce che non cambia colore / quella luce a cui tutto si impiglia / quella luce ancora di nessuno / – ava degli antichi ed erede di nascituri”, appunto, “quella luce che irrora l’archeolatra”. E questa luce è, come ogni umanista sa (o dovrebbe sapere) la “conoscenza che affreschi / le nostre vite disgraziate, bisognose / di scorci sempre differenti / di grane smisurate”.

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Scurità radiosa
Luce che occulti le giornate lente
che passano in sordina,
assillo fisso dal sopra,
strapiombante fascio che versi
il riflesso piatto
sul cotto nelle stanze accaldate
la tua falsa brillantezza.
Un osservatore neanche troppo perspicace
vede nel tuo leggero verde
la gomma dell’inganno e pensa,
«presto s’alzerà la notte rischiarante e vedrai…»
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Atroce primavera
Non ho mai amato la primavera.
Quel clima bugiardo,
le sue brezze insidiose,
erba e foglie ancora troppo scarne
ripetute su rifacimenti
smisurati, disordinati
svasano il senno:
con i primi chiarori allucinati
i rettili alzano la testa
gli uomini la abbassano.
Il dovere dell’estate imminente
è l’unico puntello.
Generosa e certa e larga estate!
Ma tutti intrecciano adulazioni
d’ogni fatta, insistendo
«oh splendida primavera!»
«No» ostino,
«la primavera è atroce.»
Poiché so
la primavera sfoggia
i nostri dissesti.
