Quand’è che l’Eurovision Song Contest ha smesso di essere quell’immancabile cult che noi “spostati” aspettavamo con gioia alla ricerca del peggio con cui (spesso soli, nella nostra stanzetta da nerd) pogare o commuoverci al ralenti in un mix letale e parossisstico di atmosfere tra gli ABBA e gli EUROPE (la loro indimenticata “The Final Countdown” fu coverizzata dal maestro catanese Brigantony con il titolo “Mi Stuppai ‘Na Fanta”)?
l’Eurovision è stato anche il luogo dove l’eurodisco ha proliferato, con quella sua ascendenza da tarantella e la mani battute a tempo
Quand’è che quella meraviglia di festival barbaro, fatto per e da musicisti con il “mullet” (taglio che voi umani conoscete per quei gli anni meravigliosi ed esteticamente roboanti popolati dai Duran Duran e dagli Spandau Ballet), abitanti dei boschi, delle lande sperdute, dei piccoli paesini con la mucca sul retro delle casette di legno? Quand’è che è diventato un festival cool? La mia memoria dà la colpa ai Maneskin. E solo Victoria ci dà la gioia di quelle atmosfere ormai dimenticate quando si mette le stelline sui capezzoli (tra i The Kiss e Nina Hagen) o si ipertrucca gli occhi con l’ombretto azzurro in pura estetica “Gola Profonda”. Erano tempi in cui, con i jeans “belli larghi in alto e belli stretti in fondo” (il contrario di quelli cantati da Elio e le Storie Tese) andavamo a Malmoo, nella spiaggia di Ribesborg, la Copacabana della Scandinavia, chilometri di spiaggia rigorosamente nudista (con aree separate per i tessili) dove esporre il nostro biancore che si mischiava al biancore degli uomini del Nord, dei Normanni.
Quella meravigliosa epoca, dove (nel 2012) vincevano i “Lordi”, gruppo heavy metal finlandese, con quel look da Slipknot scandinavo (li chiamavamo “Gli Scrondi”, dalla figura ideata da Stefano Disegni e Massimo Caviglia e portata in televisione “Matrjoska” – subito cancellata – e l’Araba Fenice – discendenti entrambi da “Lupo Solitario”), anno magico, il 2012, dove sul palco, per la Russia salirono le “Buranovskiye Babushky” con “Party for Everybody”, gruppo di arzille nonnine in abito tradizionale che partono con una nenia per poi aprirsi a un “unz unz” dalle melodie sovietiche. A proposito di “unz unz” (cassa in quattro e melodia orecchiabile) l’Eurovision è stato anche il luogo dove l’eurodisco ha proliferato, con quella sua ascendenza da tarantella e la mani battute a tempo. Se io dò la colpa ai Maneskin è per una mia filologia che immagino corretta. Il film culto di quel festival di culto, o meglio “straculto” per citare l’immenso Marco Giusti (che invito ad approfondire la questione “Da quando L’Eurovision passò da stranerd a cool fighettino?”) fu “Eurovision Song Contest – La Storia dei Fire Saga”, di David Dobkin con Will Ferrell (anche sceneggiatore) nelle vesti di Lars Ericksonn, cantante nel duo finlandese insieme a Sigrit Ericksdottir (Rachel McAdams), uscito su Netflix nel 2020. Fino a 4 anni fa il festival scandinavo era quella cosa lì. Quella cosa che, a sorpresa, vinse l’Oscar per la migliore canzone con “Husavik”: “Dove le montagne cantano attraverso le urla dei gabbiani / dove le balene vivono perché le persone sono buone”.
Pare che gli inglesi dicano: “Gli altri paesi mandano all’Eurovision Song Contest i loro migliori cantanti, noi mandiamo i nostri peggiori”
Anche se la canzone-video più rappresentativa è “Volcano Man” (prego la regia di mandare il video), un delirio neoromantico-vikinghesco. Pare che gli inglesi dicano: “Gli altri paesi mandano all’Eurovision Song Contest i loro migliori cantanti, noi mandiamo i nostri peggiori”. Ma, all’epoca, era quello che volevamo: non ne potevamo più di quei tossichetti magrucci che ci proponeva in tutte le salse l’odiata Mtv. Cercavamo il borissimo metal di Odino, i gruppi folk dell’ex Unione Sovietica.
Oggi stanno tutti lì, a prendere questa, che è stata una meraviglia kitsch (a volte, nei migliori casi, “camp”), sul serio, al punto di lanciare lo scandalo se l’anteprima delle prove di Angelina Mango poteva rappresentare un incidente diplomatico. Sì per me sono i Maneskin il punto di svolta, i colpevoli assoluti di questa cappa di seriosità ansiogena da “palcoscenico internazionale”! Ma c’è da prendere in considerazione anche un’ipotesi più “alta” secondo cui la concezione dell’Eurovision come evento in qualche maniera “serio” è da addebitarsi a un trionfo del kitsch vissuto non più, come facevamo, da fruitori consapevoli e quindi “camp”, ma senza quella “distanza” (vedere “La Scrittura e la Differenza” di Jacques Derrida) per cui l’ipermoderno in cui viviamo porta persino il mainstream a identificarsi con questo kitsch senza più alcuna, appunto, “differenza” se non quella della pura immagine per cui non si riesce, nella gran parte dei casi, a vedere in un “Borat” (personaggio leggendario di Sacha Baron Coen, perfetto per l’Eurovision Song Contest come l’abbiamo fino a tempi recenti “percepito”) la sua “maschera”: e in realtà il “gioco” di Borat non potrebbe esistere se non ci fosse qualcuno a prenderlo sul serio. Sia come sia c’è una immagine che riesce a mettere d’accordo queste due teorie, quella della mainstreamizzazione dell’Eurovision Song come “palcoscenico internazionale” e quella della “mainstreamizzazione” del festival scandinavo come dilagare del kitsch, ed è il “cul* di Damiano”. Ci vorrebbe un Andy Warhol per raccontare come il cul* di Damiano rappresenti e quella “fortuna” da palcoscenico internazione e insieme il cul* percepito infine come vera rappresentazione artistica. Il cul* di Damiano e il costume di Borat, sono i due estremi tra cui si misura la distanza, o la mancanza di essa, tra il kitsch e il camp.