Sarà che la storia del giornalista istrionico, ma svuotato, che frequenta gente coi soldi senza averne mai abbastanza in tasca è una roba ancora attualissima, ma non ci andava di far passare in sordina il sessantesimo anniversario della Palma D’Oro a “La dolce vita” di Fellini. Ecco, quindi, sei motivi, uno per decennio, per cui vale la pena rivederlo.
1) È un film con auto che fanno sbavare
La Triumph TR3 con cui Mastroianni scorrazza per Roma, tra le serate di via Veneto e le giornate col taccuino in mano, è una delle icone del “guidare scoperti”. Ma l’inglesina classe 1958 non è l’unica auto pazzesca che Fellini ha scelto per il suo film. Impossibili da dimenticare la Giulietta Sprint del “55, come anche la Jaguar XK del “57, oltre alle icone americane che accompagnano l’arrivo a Roma della Ekberg: la Cadillac 62 del “58, la Corvette del “55 e la Fairlaine500 del “58. A proposito di Ekberg, se è vero che lei e le altre attrici de “La dolce vita” sono di fatto stereotipo di bellezza, è altrettanto vero che il tempo non ha potuto conservarle. Le auto del film, invece, sono oggi più belle di allora.
2) È un film che racconta l’inizio della fine
Chi ancora oggi sostiene che Federico Fellini avesse voluto raccontare l’Italia del benessere e della gioia, a 60 anni di distanza ha avuto tempo e ha modo di ricredersi. Perché “La dolce vita” è un film sulla decadenza, un film che racconta l’inizio della fine. Nella ricchezza, nell’opulenza di una trama quasi barocca, affiora sempre, come una costante latente, la monotonia del vivere alla giornata per mascherare la sensazione di sconfitta. Insomma: una Babilonia che annuncia disperazione. E che, oggi, stimola una riflessione: “Cazzo! Fellini ci aveva avvisati”. Mascherine o meno, in tempo di pandemia, il sorriso stampato sotto lo portiamo in pochi. E non ci va nemmeno di fingere di divertirci. “Questa non è vita, questo è abbrutimento” – dice Mastroianni mentre stringe il volante della sua TR3.
3) È un film sulla fede e sull'approccio alla spiritualità
La pellicola si apre con una frase “Dov’è che va Gesù?”. Sessanta anni dopo non sappiamo dove sia andato, ma di sicuro è cambiata la religiosità. E’ in questa chiave, infatti, che “La dolce vita” ha segnato un vero e proprio spartiacque nell’approccio alla fede di un Paese intero. Dal bigottismo dell’immediato dopoguerra a una spiritualità più individuale, ma non per questo più distante da Dio. Tanto che all’epoca la Santa Romana Chiesa e i benpensanti tentarono la strada della censura per evitare che la pellicola trovasse il successo che invece, poi, ha trovato. Dividendo la stessa chiesa. “Preghiamo per il peccatore Fellini” – affermò il parroco della Basilica del Santo, a Padova. “La dolce vita è la più bella predica che abbia mai ascoltato” – replicò il gesuita Angelo Arpa.
4) È un film che ha resistito alla moda dei remake
A sessanta anni dalla Palma d’Oro al Festival di Cannes, l’idea di un remake de “La dolce vita” è discussa da tutti, ma praticata da nessuno. Segno evidente che si tratta di qualcosa di irripetibile, al punto di resistere ad una moda da cui non sono stati immuni nemmeno capolavori come “Profumo di donna” o anche, più terra terra, “Gola profonda”. Dell’Italia che non c’è più raccontata da Fellini, non c’è più nemmeno la possibilità di un nuovo racconto. Perché dove vai a trovarlo il pazzo, fosse anche accecato dal denaro, che si carica la responsabilità di azzardare una trasposizione in chiave moderna senza Roma, senza quelle donne, senza quelle auto, senza quegli animi di telespettatori aperti alla riflessione?
5) È un film sulla curiosità come mezzo e non come moto dell’animo
Lo scrittore senza talento che ripiega sul giornalismo si ritrova testimone di accadimenti importanti. Dalla presunta apparizione della Madonna alla reale apparizione di Anita Ekberg, dal ritrovamento del mostro marino alle abitudini dei salotti buoni. Sta lì perché ci deve stare. E non è mosso dalla curiosità come principio e come fine, ma dalla curiosità come mezzo per raggiungere qualcosa da raccontare. Magari per poi essere pagati, in denaro o in successo e blasone. Ricorda, un po’, quest’epoca dei social, in cui una fotografia, come anche un video, non è lo strumento che fissa un momento, ma il mezzo che consente di condividere quel momento.
6) È un film nato da uno spogliarello e con la battuta più sagace del cinema italiano
Il bellimbusto americano in pieno hangover rifila una sberla alla Ekberg e poi raggiunge Mastroianni armato di cattive intenzioni; uno dei paparazzi presenti fiuta quanto sta per accadere e se ne esce con la battuta del secolo: “Ah Marce’, sai mena’ in inglese?”. Ecco, basterebbe questo spezzone per consacrare “La dolce vita” più di mille Palme d’Oro. E poi, come non ricordarlo, “La dolce vita” nasce da uno spogliarello. Quello storico di Nanà Aichè nella notte turca di Roma, nel 1958, che sconvolse la capitale della Cristianità, poi riproposto da Fellini nel suo capolavoro attraverso le voluttuose forme di Nadia Gray. Roba da far intimidire anche le più dissolute protagoniste del cinema di oggi.