Ogni maledetto 26 maggio nel nome del padre, del figlio e delle auto da corsa. No, non abbiamo spostato il Natale o la Pasqua e non ci permettiamo nemmeno di scherzare con i santi. Vogliamo solo raccontare una storia legata alla data di ieri, alle macchine veloci, alla passione a vita persa di un padre e suo figlio. E non c’entrano niente nemmeno le recenti dichiarazioni sulle condizioni di salute di Michael Schumacher, le uscite (insensate) di chi dice di sapere come sta e non volercelo dire, o delle gesta di suo figlio Mick - uno che sta crescendo nel mondo delle corse sotto il peso di un padre che è leggenda, ma senza poter contare sulla sua vicinanza paterna.
La storia che vogliamo raccontare è quella di Antonio e Alberto Ascari. Piloti. Padre e figlio. Morti entrambi di motorismo (perchè è come una malattia) il giorno 26. A distanza di 30 anni l’uno dall’altro. Antonio a luglio e Alberto, appunto, il 26 maggio. ieri, ma di 66 anni fa.
Antonio ha incontrato la morte all’uscita di una curva di un circuito nei pressi di Parigi, nel 1925, mentre era in testa ad un Gran Premio al volante della sua Alfa Romeo e mentre stava per affermarsi come il miglior pilota degli Anni ’20. Aveva vinto parecchio, sfiorando la vittoria alla Targa Florio e tagliando per primo il traguardo di diverse gare dell’allora Campionato del Mondo Marche (che oggi si chiama Formula 1). E da poco tempo, appena sette anni, era diventato padre. Padre di Alberto: il figlio che ha proseguito la storia di successi di quel cognome, Ascari, rendendola leggenda eterna del motorsport.
Vendeva i suoi libri del liceo per finanziarsi le corse
Quel bambino aveva fatto un doppio solenne giuramento sulla tomba del padre: non si sarebbe mai più messo al volante il giorno 26 di ogni mese e sarebbe comunque diventato il numero uno dei piloti d’auto. Ha tenuto fede soltanto a uno dei due, con buona pace di una madre che non ha potuto niente per evitare che le corse, quella malattia che è il motorismo, rischiassero di portargli via oltre al marito anche un figlio. Quella donna, mamma Elisa, ce l’aveva messa tutta, ma quando Alberto arrivò al liceo dovette ricomprargli numerosi vocabolari. Sì, perché Alberto Ascari, sapendo che la famiglia non gli avrebbe mai dato i soldi per correre prima con le motociclette e poi con le macchine, vendeva i suoi vocabolari. Raccontando, poi, che a rubarglieli erano stati i bulli. Quando mamma Elisa scoprì tutto era tardi. Troppo tardi per non assecondare una pulsione che per quel ragazzo era allo stesso tempo presupposto e aspirazione di vita, tanto da dichiarare in una intervista: “Io obbedisco solo a una passione: le corse. Senza non saprei vivere”. Nel 1940 lasciò quelle in motocicletta per passare alle quattro ruote. Il resto è storia.
La promessa mantenuta e quella tradita
Una storia di vittorie indissolubilmente legata al marchio Ferrari, che grazie ad Alberto Ascari conquista il primo Campionato del Mondo, nel 1952. E pure il secondo, nel 1953. Che è stato anche l’ultimo per un pilota italiano al volante di un’auto italiana. Divenne il più forte, consacrando la sua carriera a suon di record. E mantenendo uno dei suoi due giuramenti.
L’altro l’ha tradito, il 26 maggio del 1955. Ma per capire cosa sia successo, bisogna fare un passo indietro di qualche giorno. Era il 22 maggio, infatti, quando Ascari ebbe un terribile incidente a Monaco. Finì in mare con la sua macchina da corsa e riuscì a riemergere per miracolo. Quel miracolo, probabilmente, l’aveva fatto convincere di essere infallibile. Di poter sfidare il destino e l’altra sua promessa. Il 26 maggio del 1955, infatti, venne a sapere che due suoi amici erano sul circuito di Monza, per provare la Ferrari 750 Sport. Aveva addosso abiti civili – giacca e cravatta racconta la leggenda – quando si precipitò sull’asfalto di Monza per provare quella macchina, dicendo che avrebbe fatto solo qualche giro. Nonostante fosse un superstizioso, nonostante non salisse mai su un’auto da corsa senza il suo maglione e il suo casco azzurro e nonostante quel giuramento di non guidare il giorno 26.
Perse il controllo di quella Ferrari, che si ribaltò schiacciandolo e provocandone la morte sul colpo. Quella che allora veniva chiamata Curva del Vialone, prese il suo nome, per diventare poi l'attuale Variante Ascari - da che la sicurezza ha preso (giustamente) a sostituire con chicane parti di rettilineo e curve veloci, nel tentativo di rallentare almeno un po' il circuito con la media oraria più elevata di tutto il Campionato di Formula 1. Fu sepolto al Cimitero Monumentale di Milano, accanto a suo padre Antonio.