La pandemia è un evento senza precedenti ed è facile criticare le scelte del governo, ma sulla scuola una cosa è certa: non c’è un piano unitario. Non c’è nella pandemia e non c’è stato nei decenni precedenti, quando la scuola era completamente assente dal dibattito pubblico e politico e arrancava sorretta dal solito spirito missionario di chi la fa: insegnanti, bidelli, presidi.
Oggi invece la scuola è su tutte le prime pagine, con un comandamento a oltranza che è il mantra della ministra Azzolina: non chiudere. E infatti domani si torna al lavoro. Solo che si puntava al 100% dei rientri, ci si era preparati per il 75% ma forse assisteremo al 50%. Troppa incertezza, troppe norme, troppi diktat.
Sul Corriere Giovanni Cogliandro, preside romano, dice: «La decisione non è stata seguita da un decreto ufficiale, noi sappiamo che la riapertura del liceo è rinviata in presenza a lunedì solo per averlo letto sui giornali e sulle chat dei presidi». A Firenze idem, la preside del Galilei spiega che ormai sono cauti anche a comunicare le cose alle famiglie perché ogni giorno cambia tutto.
Quindi la scuola “non deve” chiudere. Si ferma il commercio, il turismo, l’economia. La scuola invece è un treno che non ha il freno d’emergenza. Perché? Non si capisce il perché. Si torna a scuola di giovedì quando nel weekend saranno probabili nuove decisioni in materia di mobilità, salute e sicurezza. non si poteva aspettare il lunedì 11? Che facciamo, torniamo due giorni in classe e poi magari richiudiamo?
Chiudere sembra una sconfitta. E in parte lo è se si guardano i dati Ipsos in cui emerge che circa 34mila studenti delle superiori, a causa delle lunghe assenze, rischiano di alimentare il fenomeno dell’abbandono scolastico. Di fronte a un computer con una connessione scarsa, a una webacam che non funziona, a un ritorno d’audio, è facile eclissarsi nell’oblio digitale.
Però è vero che gli insegnanti hanno paura a tornare in classe. Di loro non troverete dichiarazioni sui giornali né esponenti che danno battaglia negli studi tv. Loro li troverete domattina in classe. Non sono stati inseriti tra i soggetti che per primi riceveranno i vaccini però inspiegabilmente sono i primi che devono lavorare in presenza. Alle elementari e all’infanzia non hanno mai smesso. Si era parlato per loro di un’indennità di rischio, di un aumento che chiaramente non è arrivato. Coi loro stipendi più bassi d’Europa sono sempre più simili a babysitter che a insegnanti. E se c’è un altro motivo, che non viene mai detto, per cui la scuola non può chiudere è che le famiglie non hanno idea di come contenere i figli.
La scuola è il luogo in cui i ragazzi vivono la maggior parte della loro giornata e le famiglie che si sono trovati con gli adolescenti sul divano o ciondoloni in cucina a protestare perché era finito il ketchup hanno creato non poche crisi familiari. Ma anche di questo non sentirete nessuno parlare. Dove sono finiti Crepet, Recalcati, Andreoli, tutti gli psicologi che negli anni ci hanno aiutato a capire le debolezze che ci affliggono? In tv c’è spazio solo per i virologi in questo momento, ma il pubblico avrebbe bisogno di sostegno oltre che di dati.
Il sospetto è che il governo stia tirando la cinghia con un settore a cui manca di gratitudine da troppo tempo.
A inizio pandemia si diceva che i bambini quasi non si ammalavano poi si è scoperto che invece contraggono eccome il virus e lo trasmettono pure. Solo che di solito non hanno sintomi.
Ci sono quindi tutti quegli insegnanti immunodepressi, quelli che hanno a casa persone anziane o malate, che hanno una gran paura. È giusto lavorare in queste condizioni?
Chi sta con i bambini riceve quando va bene le mascherine chirurgiche che ormai sembrano dei placebo. Vi basta entrare in un qualsiasi istituto per vedere che gli insegnanti e i bidelli hanno tutti le FFP2 e se le sono comprate da soli. E non costano poco.
I licei sono un altro problema. Perché la scuola è ormai sicura, dotata di ogni regola di igiene e di distanziamento ma gli autobus, le metropolitane, i treni, le feste abusive? Non sembra proprio ed è lì che i contagi dilagano.
A scuola sono mancati i tamponi, i termoscanner, ogni istituto ha fatto come poteva, puntando sul solito spirito missionario degli insegnanti e dei presidi, votati alla causa e abituati a lavorare senza fondi, senza stimoli, senza colloqui con lo stato. Abituati a obbedire però come uomini dello stato, ormai disertori delle proteste per i diritti. Protestare in tempi di crisi pare volgare. I sindacati battono i piedi sui tavoli delle trattative ma intanto niente succede, in classe ognuno ci va a suo rischio e pericolo e si trova a fronteggiare genitori novax che non vogliono far indossare la mascherina ai piccoli perché a detta loro non respirano.
Domani forse si torna in classe, con alcune regioni che aspettano e altre che fanno come vogliono. Ma l’umore è nero e la colpa non è del covid, ma di una gestione esercitata a suon di decreti, di imposizioni calate dall’alto, di decisioni prese lontano dai docenti.
E questo traspare all’esterno, si riversa sulle famiglie, mina la già fragile fiducia che hanno nei confronti dell’istituzione scolastica.
Agostino Miozzo, il direttore del comitato scientifico, non certo un no global, scrive oggi sul Foglio: «Sappiamo tutti che prima della dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio 2020 di perfetto nel mondo della scuola c’era poco: non c’erano spazi sufficienti, attrezzature, personale, trasporti, controlli sanitari. Oggi d’incanto si invocano e si chiedono spazi scolastici sui modelli nordici, aereazione degli ambienti con strumentazione spaziale, controlli sanitari come se la sanità pubblica esistesse e funzionasse, come un orologio svizzero, trasporti “come se”, si chiede tutto “come se”, ben consapevoli che il tutto non esiste e non sarà mai disponibile negli attuali tempi della crisi».