I musi lunghi, le tirate d’orecchie ai piloti, l’Inno di Mameli sempre urlato e sempre fuori tempo. La Ferrari è italiana ed essere italiani è anche questo
No, non state guardando un documentario. Cercate di tenerlo a mente mentre non vedete l’ora di fare a pezzi un film tipicamente hollywoodiano reclamandone gli errori storici, le piccole inesattezze tecniche, i finali rimasti aperti.
Diretto da James Mangold, Le Mans '66 - La grande sfida, racconta le eroiche imprese che nel 1966 portarono la Ford a vincere la 24 più famosa del mondo e lo strano caso del pilota Myles, rimasto Re di Le Mans senza corona. Il biopic interpretato Christian Bale e Matt Damon e prodotto da Peter Chernin è da poco visibile su Sky dopo aver conquistato il pubblico al cinema, dove uscì lo scorso 30 agosto.
E a guardarlo così - nulla da dire - "Le Mans '66 - La grande sfida" sembra davvero un film a cui pare non mancare nulla: c’è la storia vera, gli eroi che vivono di passione, i cattivi che pensano al loro interesse, la velocità, la sfida, una bella colonna sonora e un finale strappalacrime.
Christian Bale e Matt Damon riempiono ogni scena, poliedrici e ironici, restituendo alla storia il ricordo di due grandi personaggi del mondo dei motori: Ken Miles e Carroll Shelby. James Mangold ha confezionato un filme che sembra davvero avere tutti gli ingredienti per sbancare il botteghino, aggiungendo alla storia un amore difficile, un po’ di problemi economici e il climax nei punti giusti.
Ma in questa storia c’è di più. Scavando nel racconto si trovano gli interessi di una grande azienda pronta a tutto per arrivare al suo obbiettivo. Una potenza americana che forse un po’ assomiglia a quella Hollywood che questo film l’ha partorito.
E poi ci sono gli italiani che sono tutti pasta, pizza e mandolini. Sono emotivi, disorganizzati, orgogliosi, incazzati. In tanti l’hanno vista come un’ingiusta rappresentazione di uno stereotipo italiano che poi, diciamocelo, alla fine stereotipo non è poi molto.
Basti pensare all’indimenticabile meccanico Ferrari che nel 2008 prese talmente bene la sconfitta di Felipe Massa a Interlagos che sfondò un vetro del box con un pugno, o alla multa che la scuderia di Maranello pagò lo scorso anno dopo che un meccanico eseguì il pit-stop sulla monoposto di Vettel senza guanti. I musi lunghi, le tirate d’orecchie ai piloti, l’Inno di Mameli sempre urlato e sempre fuori tempo. La Ferrari è italiana ed essere italiani è anche questo. In Le Mans ’66 non è la vincente, la mitica e inimitabile scuderia di cui ci piace parlare. In Le Mans ’66 la Ferrari è il cattivo. E si sa, nei film i cattivi perdono sempre.
Il profondo sentimento che guida l’Enzo Ferrari del film, interpretato magistralmente da Remo Girone, è il grido dell’uomo che fondò il mito italiano più di novant’anni fa. Rosso in viso per la sconfitta ma anche rosso come la passione che guidò la sua esistenza, sempre presente durante tutta la sfida, rosso come la sua più grande invenzione, a volte (ancora oggi) così dolorosa nelle sconfitte per il popolo italiano.
Ma di che ci lamentiamo? Steve Jobs non è mica quello che abbiamo visto al cinema
Qui e là la realtà di questa storia cozza con quello che il cinema ha messo in scena, modificando il filo di un racconto troppo complicato per essere raccontato il due ore e trentadue minuti. Ma di che ci lamentiamo? Steve Jobs non è mica quello che abbiamo visto al cinema, e nemmeno Kennedy o Johnny Cash (nel film diretto dallo stesso Mangold).
Così come gli italiani in Le Mans ’66 inciampano nelle proprie scarpe mentre cercando di correre ai ripari, gli americani non nascondono la vena cruda, la sete di vittoria che non viene a patti con niente, nemmeno con il rispetto delle regole. In Ford c’è meno passione, ma c’è una necessità: vincere per rendere grande un marchio. E alle fine ci riescono ma lo fanno sacrificando l’eroe che li ha portati alla vetta del mondo del motorsport. A battere la Ferrari nel tempio degli ostinati e dei folli. A vincere Le Mans.