Mank, il nuovo lungometraggio di David Fincher interamente prodotto da Netflix, è come un buon single malt dopo decine di vodka Red Bull annacquati. Una lettera d’amore al cinema e agli anni d’oro di Hollywood, nonché una risposta convincente a chi lamenta pattume ed assenza di coraggio nelle produzioni odierne. La trama ruota attorno ad Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), sceneggiatore di Quarto Potere alle prese con quello che, oggi come allora, è un ambiente in cui l’arte vive costantemente soffocata dal business.
C’era una volta… no, prima ancora
David Fincher prende in mano la sceneggiatura scritta dal padre Jack negli anni Novanta e riesce a costruire più film in un’unica pellicola, a cominciare dalle scelte tecniche e proseguendo con uno sviluppo articolato della trama. Mank infatti è interamente girato in un bianco e nero fedele al cinema classico, così come lo sono inquadrature e cambi di scena, mentre il sonoro riporta quella ruvidezza analogica tipica del tempo.
Se anche non raccontasse nulla, Mank starebbe già spiegando al mondo il fascino del cinema d’autore, appagando il feticismo di ogni cinefilo con bruciature di sigaretta sulla pellicola -che Fincher aveva già messo in scena in Fight Club- e una colonna sonora che di tanto in tanto inciampa e salta come sarebbe accaduto ottant’anni fa. La cura fenomenale per i dettagli da parte del regista porta ad un risultato spettacolare, rendendo Mank uno di quei film che vuoi comprare e tenere in bella vista sulla libreria per fare bella figura con gli amici a cena.
Dall'elogio a Hollywood alla politica della grande depressione
Il racconto, lontano dal più classico dei biopic e del cinema di genere, ha un’evoluzione articolata che parte omaggiando la Hollywood degli anni Quaranta ed arriva ad una dura critica alla politica statunitense negli anni della grande depressione. Mankiewicz, per il quale Fincher avrebbe inizialmente scelto Kevin Spacey, si trova a dover combattere con un giovane Orson Welles alle prese con la regia di Quarto Potere. Mank è genio e sregolatezza, un uomo votato all’arte che non vuole farsi influenzare dalle logiche di un mercato sempre più opprimente in una vita in bilico tra alcolismo e follia. Come a suggerire che in (quasi) un secolo di cinema è cambiato tutto per non cambiare nulla, a cominciare dalla fatica con cui David Fincher ha trovato qualcuno disposto ad investire in un film così lontano dalle produzioni moderne.
Mank può vincere almeno quattro Oscar (nonostante sia di Netflix)
Ad Hollywood i film che raccontano Hollywood sono sempre piaciuti: un tale omaggio al cinema non potrà passare sotto silenzio agli Academy. La cura con cui è stato sviluppato il film -dal sonoro alla fotografia- porta Mank tra i grandi favoriti degli Oscar 2021, riaprendo il discorso (e la polemica) lanciato da The Irishman di Martin Scorsese, che nonostante 10 nomination è uscito a mani vuote dal Dolby Theatre di Los Angeles.
Ad aver penalizzato il gangster movie con Robert De Niro e Al Pacino sono stati, secondo la critica, i duecentonove minuti di durata, ma è impossibile non addossare parte della debacle alla piattaforma di distribuzione: Netflix ha ucciso il cinema e poi gli ha rubato la poltrona, distribuendo in streaming un Kolossal dallo smisurato livello di hype, cosa che nessuno si era mai sogniato di fare. Un attacco troppo violento all’establishment hollywoodiano, foraggiato con i soldi sottratti all’industria e (forse) presentato una punta di arroganza “si, sono tre ore e mezza di film ma lo guarderete lo stesso perché è costato una fortuna e c’è il miglior cast di sempre”. Il bellissimo Parasite di Bong Joon-ho ha fatto il resto.
Con Mank di Fincher le cose possono andare diversamente. Il 25 aprile 2021, quando l’elite del mondo cinematografico si riunirà per premiare i migliori, Netflix sarà pronta ad incassare.
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