C’è più storia del Meridione in queste foto di Glauco Canalis che in molti libri di sociologia e seminari neo-borbonici. Una galleria di esseri mitologici, metà uomini e metà motorini, con gli occhi affilati e una fame che spesso non è altro che noia. Principi azzurri senza foglio rosa e su una ruota, terza media e laurea in meccanica, 20 euro fissi in tasca ma taglio di capelli da 40, kebab e profumo Armani, casa popolare e parcheggio vista mare. Detta così sembrano speciali e invece sono solo guagliun, picciotti, pischelli, chiamateli come preferite. Un concentrato di contraddizioni, convinti di essere diversi dalle altre generazioni (che credevano la stessa cosa), ma come i padri fedeli solo a una religione: le due ruote.
Napoli, Catania, Palermo e Reggio Calabria sono i set naturali in cui si è mosso Glauco, che ha concentrato la sua ricerca sulla gioventù del Mediterraneo partendo dall’uso del motorino come status sociale e culturale. “I soggetti che fotografo, compongono un continuo auto-ritratto, una ricerca della mia adolescenza bruciata, che ho dimenticato di fotografare perché troppo impegnato a viverla oppure osservarla passare - racconta Glauco, nato a Piazza Armerina nel 1990 e da anni in giro tra Nord Italia ed estero (ora vive a Londra) - Ogni impennata, ogni ragazzo con la tipa dietro, ogni canna mentre sei sul mezzo per le vie, ogni motorino parcheggiato davanti una vista sulla città sono frammenti di memoria della mia adolescenza”.
Chi non ha mai avuto un motorino da adolescente non può capire le sue parole. Non capirà mai, in ordine sparso: i giri dopo la scuola quando c’è odore di gelsomino nell’aria, andare dalla ragazza (o dal ragazzo) che non hai ancora baciato, accompagnare l’amico a “fare un servizio” e fermarsi al muretto con lui, superare il tram che fino al giorno prima scandiva i tuoi orari di andata e ritorno, i primi lavoretti, il casco rubato, i “ti vengo a prendere io” e i “ti riaccompagno a casa”. È come cercare di spiegare una musica o il sapore di un dolce. O lo sai, o niente. Ci dispiace, ormai è andata, l’importante è non dare questo dispiacere al proprio figlio quando implorerà di comprarglielo. Tocca superare la paura della tragedia e vivere il momento come qualcosa di più alto, sacro, come un Bar mitzvah, il passaggio all’età adulta. Avere un motorino segna il momento di un’autodeterminazione che per lo più è illusoria, visto che i soldi per comprarlo, fare l’assicurazione e tutto il resto, arrivano quasi sempre dalla tasca di mammà e papà. Ma va bene, tanto sarà il mondo a spiegare con una testata in faccia che non è sempre così facile.
Che ne sanno gli americani... Da loro a 16 anni possono guidare, da noi a 10 anni già lo fanno. Loro sono cresciuti con l’orizzonte, noi con le rotonde che ci riportano allo stesso punto
Al Sud si impara presto, prima che in altri posti. I quartieri non ti danno niente, solo un vago senso di comunità che a volte è tutto. Per il resto è la giungla, ma non quella d’asfalto di un film in bianco e nero patinato, quella sporca e violenta dove sopravvive solo chi scappa più veloce. Nel suo pellegrinaggio mediteranneo, Canalis ha attraversato quartieri veraci e feroci dove la puzza di pesce del mercato si mischia a quella della benzina e del cibo delle bancarelle, in una continua promiscuità di pulito e sporco, mazza e carezza, vita e morte. Un esempio perfetto sono il Mercato e Forcella a Napoli, due quartieri distanti pochi passi eppure mondi completamente diversi per chi (come me) è cresciuto in uno dei due. Terra di geni sprecati e talenti analfabeti, dove le stime di Gianni Morandi vanno riviste: uno su tremila ce la fa davvero. E, in genere, non è quello che passa tutto il giorno in strada. “Questa area geografica, che Fernand Braudel ha definito come un “territorio liquido” i cui confini si estendono “fin dove crescono gli Ulivi”, è il mio territorio di ricerca - spiega Canalis - con una identità propria, che attraversa confini politici e geografici, lingue e colore della pelle”. E infatti i ragazzi che immortala sono sangue misto, figli di tanti pezzi d’Europa partorita al Sud, nel ventre di quel Mediterraneo che insegue. Adam Jendoubi, uno dei “modelli” di Forcella, ha padre tunisino e madre polacca, si sono conosciuti a Napoli e lì hanno deciso di farlo crescere. I gemelli Saitov sono mezzi macedoni di etnia sinti nati davanti al Vesuvio. Loro, come altri delle foto di Canalis, si trovano a metà tra il piccolo mondo antico dei loro quartieri e il cielo aperto del cinema, che hanno assaporato recitando nei video di Liberato e nel film “Ultras”, tutte opere del regista Francesco Lettieri che ha scelto proprio Canalis come fotografo di scena.
Sono ragazzi in bilico tra le radici e i rami, che in gruppo mangiano la notte e quando vanno a letto da soli lasciano la luce accesa. Che si inventano impegni solo per poter usare il motorino, per fare decine di chilometri senza spostarsi mai dal proprio quartiere o quadrante di città. Forse per questo non abbiamo un “Easy Rider” versione 125, non ci sono mai grandi distanze da percorrere, strade deserte col nulla intorno dove cercare sé stessi. Che ne sanno gli americani di uno zig-zag in mezzo al traffico? Da loro a 16 anni possono guidare, da noi a 10 anni già lo fanno. Che ne sanno di vicoli in cui passa appena una macchina con gli specchietti chiusi? Loro hanno le highway, noi i sampietrini assassini. Loro sono cresciuti con l’orizzonte, noi con le rotonde che ci riportano allo stesso punto. Ed è la sintesi di molte vite del Sud: spesso quelli che vanno a piedi, gli sfigati senza mezzo, fanno più strada. Ma succede dopo, da quasi adulti, fino ad allora tutto il globo ha la dimensione di una sella. Altro che terrapiattisti, pe guagliun il mondo è un rettangolo, succede tutto in quei pochi centimetri zigrinati. È un trono, una base, una culla. Quella sella diventa la camera che in casa non hai o che finalmente puoi condividere con chi vuoi tu.
Sì, stiamo sempre parlando di un motorino e chi pensa sia tutto esagerato e retorico, evidentemente ha avuto i genitori troppo timorosi per comprarglielo. “Però a 18 anni e un giorno avevo la patente e usavo la macchina”. Embè? È come dire non ho mai giocato a pallone però spaccavo a dama. Quanti film ci sono sui campioni di dama? Ci siamo capiti. È questione di status, non si scherza, è una cosa che resta sulla pelle e nella propria storia. Chiedetelo a Mirko, il mio compagno di banco del liceo, che per tutti noi amici è semplicemente Pgo (piggi-ò), perché era l’unico a Napoli a guidare uno scooter Pgo in mezzo a un oceano di SH, Beverly e Liberty. Ci voleva grande personalità. Ha girato il mondo ma alla fine resta Piggi-ò. Dovreste sentirlo parlare del suo Pgo ancora adesso, a distanza di tanti anni, parole così belle non sono mai state pronunciate neppure per la più incantevole delle donne.
Sarà l’imprinting, sarà il primo amore, sarà che quel coso con la marmitta bucata è stato il miglior amico di molti, sarà che Mirko ha ascoltato più confessioni tra un contromano e una corsia preferenziale del parroco del Duomo seduto sulla panca di legno. Oppure chiedetelo a Stefano, l’amico di Canalis che in un anno è riuscito a farsi sequestrare il motorino 5 volte, diventando l’eroe di tutto il gruppo. Sono passati 15 anni ma il titolo di campione gli resta addosso. Insomma, una vita passata a stringersi in 2, in 3, in 4, su una sella sformata da chissà quanti culi di passaggio e adesso, dietro una curva, c’è il posto di blocco del distanziamento sociale. Era quasi meglio una pattuglia.