Strappare lungo i bordi fa morire. Non stiamo dicendo di indossare guantoni da boxe per aprire la vostra prossima raccomandata (ma, nel caso voleste provarci, sentitevi liberi di farci su un TikTok). Stiamo parlando della serie animata di Zerocalcare appena sbarcata su Netflix, da mercoledì 17 novembre. La parola “capolavoro” è abusata, anzi diremmo ormai proprio stuprata ripetutamente da appassionati grafomani entusiasti per ogni foglia di betulla che casca sui marciapiedi ciccati d’autunno, ma qui non c’è altro termine per definire il gioiello di cui abbiamo goduto, fotogramma per fotogramma, la visione. Sei puntate da venti minuti per una montagna russa di emozioni e risate che lasciano il segno: ogni frame (riuscite a trovare tutte le citazioni?) scudiscerà i vostri ventricoli facendo credere di volervi semplicemente “svagà”. E invece no, Zerocalcare è un ninja dei sentimenti, uno a cui non frega nulla di nessuna cosa, a parole (tante, tantissime parole). Ma poi ti descrive, descrive te, descrive ognuno di noi, analizzando l’inquietudine, l’amore, l’amicizia, ogni tipo di rapporto che, volenti o nolenti, ha a che fare con la vita. E allora perché fa morire?
Strappare lungo i bordi fa morire perché uccide già a cinque minuti dal primo play qualunque altra produzione italiana per la grande N. E ferisce letalmente anche quelle internazionali, verrebbe da dire. Siamo frastornati: è la prima volta che ci capita di poter promuovere a pieni voti un prodotto made in Italy e ci rendiamo conto di non essere pronti. In repertorio, ormai per buona abitudine e mesta tradizione, abbiamo solo pernacchie e sfottò, tipo coccodrilli in morte di uno famoso, quando si tratta di recensire serie tv italiane che non si chiamino Boris. Strappare lungo i bordi fa il cazzo che gli pare e ribalta il risultato con a disposizione il corrispettivo di una scarpa e una ciavatta ovvero quattro personaggi ciancicati, un viaggio da Roma che parte con il nuvolone nero di Fantozzi sulla collottola, l’ansia del protagonista Zero, i rimbrotti dell’amica Sarah e l’inesorabile voglia di gelato del terzo del gruppo, Secco. E poi Alice, la ragazza senza voce. Non possiamo dirvi di più sulla trama perché il plot twist arriva improvviso, con la delicatezza di un cartone di Conor McGregor in piene narici che stronca l'eco della vostra ultima risata come foste un Facchinetti qualunque a una cena di gala.
Strappare lungo i bordi uccide perché uno fa play mentre sta vivendo la propria vita, nel bene e nel male, e ne rimane avviluppato, risucchiato in una spirale di sarcastica inadeguatezza che ne siamo certi, alle volte attanaglia pure Elon Musk nei due secondi l’anno in cui dimentica di pensare a Marte. Ma è un’inadeguatezza bella perché condivisa, anzi collettiva. Strappare lungo i bordi, a livello di azione, sembra un gesto semplicissimo perché i bordi ci sono già e i pollici opponibili li abbiamo dalla nascita. E invece no, peggio di Squid Game - ma solo perché dopo aver fallito si rimane in vita a deliziarsi con le conseguenze - un gioco così elementare, infantile, diventa metafora perfetta di tutto ciò che può andare storto o fuori giri, l’infinità di piccole cose che prendono il controllo della vita al posto nostro: dal disordine del ciarpame inutile lasciato ad ammucchiarsi come un orgiastico totem sul divano, all’arrabattarsi per arrivare a fine mese dimenticando poi cosa si volesse fare davvero da grandi, fino all’immensa rottura di maroni che può essere (e molto spesso è) l’interazione con quelle teste di bestie (topi, scimmie, rettili, tigri o quel che vi pare) che sono gli altri esseri umani e il loro giudizio. Di cui si può pure fare a meno. Anzichenò.
Strappare lungo i bordi uccide perché pur parlando di mediocrità, la disintegra pezzo per pezzo. Nel campionato delle serie belle, ma proprio di quelle capolavoro, ce ne sono di due tipi: le prime mentre le guardi ti fanno salire la voglia di scrivere una storia parimenti perfetta (ma che magari parli di tutt’altro che i plagi li lasciamo fare ai Maneskin sugli outfit dei Cugini di Campagna) e le seconde, ancora più rare, che oltre a questo ti restituiscono la fiducia nelle persone. Perché se qualcuno ha scritto, disegnato, animato e ancor prima ideato una serie del genere, vuol dire che voi, telespettatori, anzi tu, telespettatore, forse sei nato un po’ meno stronzo di quel che pensavi. Magari, e diciamo magari, esiste qualcuno che la vede come te questa vita e che te la sa pure raccontare senza fronzoli, dritto sparato in faccia alla velocità di un Frecciarossa con le carrozze ibernate dall’aria condizionata e la vecchia di 465 anni che ti guarda fisso mentre gli altri dormono o forse sono passati a miglior vita, tipo trote salmonate nel freezer del discount sotto casa. Che poi, alla fine, ci potevi pure rimanere a casa. Non c’è un fotogramma, una battuta, una pausa che non sia scelta accuratamente per costruire un meccanismo a orologeria che sui titoli di coda dell’ultima puntata vi ritroverà tramortiti davanti allo schermo. Felici? Tristi? Sicuramente presi a pugni. Poi, son gusti.
Strappare lungo i bordi è una serie coraggiosa, romanissima ma allo stesso tempo internazionale, con una colonna sonora da stadio di San Siro tra Tiziano Ferro, Manu Chao, Ron e Giancane (solo per citarne alcuni). Che siate fan o meno di Zerocalcare, la vostra coscienza a forma di Armadillo (doppiata da Valerio Mastandrea) non vi darà tregua per tutta la visione delle serie. E sarà bellissimo. Come solo le cose vere, quelle autentiche, possono essere. Un broker all’America Psycho, un tronfio conoscitore del trading online che ha capito tutto e se lo dice lui è così, potrà considerare Strappare lungo i bordi la storiella di quattro falliti che, alla vigilia dei 40, non sono riusciti a combinare nulla di buono nella vita e che, per questo, si emulsionano nell’autoindulgenza per non mettersi un cappio al collo e scomparire nella loro mediocrità. Eppure i sogni esistono, come i progetti, le aspirazioni personali e gli obiettivi, anche i più folli, tipo quello di alzarsi dal divano e andare a dichiararsi alla ragazza che si ama dai tempi del liceo. Però, oh, con calma. Che c’è tempo.
Strappare lungo i bordi fa morire la tassidermia emotiva che attanaglia, rassicurantissima, il cuore e la mente di moltissimi di noi, forse di tutti. Pur di non rischiare, di non dire, di non fare. E non c’è niente di male a venerare il sacro quieto vivere, non sia mai si provasse qualcosa che gli amici e i parenti o perfino i passanti possano giudicare fuori luogo o imbarazzante. La vita, però, è per definizione fuori luogo e imbarazzante. Dopo aver “normalizzato” - che termine orrendo! - le ciavatte da spiaggia (pure quelle in gomma della Ferragni), la cellulite sulle top model e l’alluce valgo di Heidi Klum o chi per lei, ora, finalmente, tocca normalizzare pure questo: l’infinito nel senso di non finito, inconcludente, il fallimento e tutte le buone intenzioni che hanno lastricato la strada per arrivarci. Fosse solo uno, poi. Nella vita di ognuno di noi, è un fatto, si contano più fallimenti che semafori agli incroci e ci sono ben poche rotonde ad agevolare la circolazione del traffico di improperi. Vederlo sullo schermo è così liberatorio, così rivoluzionario da uccidere ogni cliché, qualunque hashtag. Strappare lungo i bordi, una serie come Strappare lungo i bordi, semplicemente, non si era mai vista. Grazie a chiunque ci abbia creduto e l’abbia realizzata così come è: un capolavoro. Sì, un capolavoro di stocazzo, chioserebbe l’Armadillo. Ed è perfetto così. Ora resta solo da correre a prendere una tuta acetata. Ma solo per le grandi occasioni. Perché “è tutto giusto il mio disgusto”.