Ah, quanto ci mancava il cinema in pandemia! Che nostalgia, signora mia. Tanto da farci dimenticare la fastidiosissima mediocrità dei lungometraggi nostrani, evidentemente. A ricordarcela - la mediocrità, non certo la nostalgia di cui sopra - è arrivato, fulmine di guerra, Pif (ve lo ricordate Pierfrancesco Diliberto, quello con la telecamerina aggiro su Mtv? Insomma, lui). Il nostro decide, dopo due anni di educato e opportuno silenzio dall’ultimo progetto per il grande schermo - il trascurabilissimo Momenti di trascurabile felicità -, di rendersi responsabile di una pellicola che vorrebbe essere una commedia distopica, forse, una tagliente satira sociale, magari, ma che ha l’unico merito, involontario, di dribblare ogni possibilità di entertainment nonché di eventuale riflessione (come anche di amor di trama) per sprintare verso la noia abissale del deja-vù. E noi come stronzi rimanemmo a guardare. Questo il titolo. E anche la miglior recensione possibile. Ma proveremo a fare di più, cimentandoci nell’accurata descrizione di tutto ciò che non funziona in questi 108 minuti da noi persi per sempre ma ancora a piede libero su Sky (e NowTv) dal 23 novembre scorso. Perché rimanere a guardare l’ultima fatica di Pif sarebbe proprio da stronzi.
Cominciamo dal malcapitato Fabio De Luigi, il Joaquin Phoenix di casa nostra, no?, intrappolato in una sinossi posticcia, derivata da Her di Spike Jonze. Nei panni di Arturo, quarantottenne brutalmente lasciato dall’opulenta fidanzata e licenziato dopo 20 anni di carriera per via di un nefasto algoritmo, il protagonista si ritrova ad accettare di lavorare come rider per la Fuuber (reference sottilissima, nevvero?) azienda guidata da un Mark Zuckerberg (ancora più) malvagio e bramoso dei dati dell’umanità tutta per poter diventare più milionario di quanto già non sia. Ed è dittatura tecnologica, signori. Nel frattempo, De Luigi - che, va detto, mette tutto se stesso per tenere in piedi un personaggio purtroppo scritto senza colonna vertebrale - si innamora dell’equivalente futuribile di Alexa: un ologramma che lo accompagna nel corso delle sue terribili giornate di turni “infinity”, un ologramma fatto a forma di Ilenia Pastorelli (attrice il cui talento è durato dal primo all’ultimo ciak di Lo chiamavano Jeeg Robot per poi dissolversi per sempre in una nuvoletta di forte imbarazzo).
L’atmosfera vuole richiamare (e ricalcare in estenuante copia carbone) quelle di Black Mirror, mostrando allo spettatore i possibili rischi che il mondo intero potrebbe correre andando avanti di questo passo, ovvero continuando ad affidarsi per ogni cosa alla tecnologia. Quella stronza della tecnologia, Pierfrancesco, ovvero l’unica risorsa che ci ha, volenti o nolenti, consentito di comunicare, lavorare e sopravvivere durante una pandemia globale che sta durando oramai da oltre due anni. Quella stronza della tecnologia, sempre lei, che dovresti ringraziare perché, altrimenti, non ci sarebbe alcun modo di vedere ‘sta sòla di film in streaming su Sky. Ci ricomponiamo.
Anche presentato al Festival del Cinema di Roma, come se ne avesse diritto, E noi come stronzi rimanemmo a guardare di bello ha solo il titolo che è, indovinate un po’, una citazione. La frase fu pronunciata, infatti, dal compianto Camilleri che la disse per chiosare un’invettiva pubblica sulla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Ma adesso i nuovi cattivi sono le app, il fatto che non ci si guardi più in faccia in 3D, signora mia, i fantasiosi annunci di lavoro che si trovano online, livello pop up, a cui se l’application la mandi sul serio, un po’ stronzo ci sei nato davvero, anzichenò.
Eppure fino a qualche anno fa Pif ci stava pure simpatico, di più: la narrazione di quest’uomo ci voiceoverava la vita grazie a Il Testimone, serial doc di suo conio che ebbe così tanto successo da portarlo almeno una settimana al mese da Daria Bignardi a Le Invasioni Barbariche per analizzare il suo incredibilmente profondo punto di vista sulla vita, la società, l’universo e tutto il resto. Così tanto successo, rincariamo, da fargli aprire pure un Festival di Sanremo. Correva l’anno 2014, colpevole del reato di cui sopra, il conduttore della kermesse Fabio Fazio con la complicità di Luciana Littizzetto. Ma a quel tempo non avevamo, ancora, alcun motivo di lamentarci sul serio. Ora sì. Ma capitiamo giusto a proposito visto che, a quanto pare, si registrava dalle parti di Sky una gran voglia di "discutere":
Pierfrancesco Diliberto, dalla sera alla mattina, ha perso lo sguardo che aveva sul mondo (o almeno la capacità di trasmetterlo al pubblico), guadagnando invece la spocchia di ogni comune dinosauro che, quante ne ha viste signora mia, depreca gli usi e i costumi di una società perché, semplicemente, è andata avanti senza avvertirlo. Tant’è vero che Il Testimone, è pure tornato in onda per 6 puntate sul nuovo canale Sky Documentaries con tanto di promo super invasivi della quiete pubblica, ma non se ne è accorto nessuno: niente polemiche, manco una riga ripresa dalle dichiarazioni degli intervistati (vabbè, finché il picco degli ospiti è rappresentato dai Jackal che hanno ormai detto tutto ciò che avevano da dire tra Prime Video, Rai 1 e il tostapane di casa vostra, non è che si possa pretendere di attrarre davvero del pubblico pagante), zero reazioni, da lontano lo stanco e sordo rumore delle classiche balle di fieno che rotolano verso il nulla.
In conclusione, Pierfrancesco, siamo felici che tu abbia apprezzato Black Mirror e che abbia avuto il tempo di recuperarti Spike Jonze, magari proprio per passare il tempo durante la pandemia. Resta però il fatto che questa estenuante ed estenuata diluizione di sinossi Netflix in un unico filmappazzone in cui ogni scena arranca dolorosamente verso il mieloso e moraleggiante finale, ça va sans dire in rallenty che di tempo non se ne era già perso abbastanza, non lo meritavamo. Quali motivazioni avranno portato Diliberto a credere che noi, come stronzi, saremmo rimasti a guardare senza fare un plissé sarebbe un ottimo spunto per costruire, questa volta sì, una trama interessante, quasi quasi pure originale. Sarà per la prossima volta, Pif. Dittatura tecnologica permettendo.