Una vicenda che pare scritta dal migliore degli sceneggiatori e che sbarca ora su Netflix
Fuji, 24 ottobre 1976. Cielo cobalto sopra il Giappone, le nuvole squarciate da una pioggia che ha il sapore salato delle lacrime. Lacrime di vittoria e lacrime di sconfitta. È lì che si decide il campionato del mondo di Formula 1 del 1976.
Il punto più alto e drammatico di una delle storie più incredibili che il motorsport e lo sport in generale abbiano mai vissuto. Una vicenda che pare scritta dal migliore degli sceneggiatori e che, non a caso, ha meritato l'attenzione di Hollywood, in persona di Ron Howard, con il suo Rush. Un film di grande successo che, a sette anni dalla sua uscita nelle sale, a un anno dalla morte di Niki Lauda e dopo essere arrivato su Netflix, sbarca ora sulla tv generalista (Rai Tre, ore 21:20), accendendo ancora una colta i riflettori sulla rivalità che caratterizzò la carriera del pilota austriaco e quella dell'inglese JAmes Hunt, magistralmente interpretati da Daniel Brühl e Chris Hemsworth.
Quello che successe quel giorno, gli appassionati di Formula 1 lo sanno bene: Lauda si ritira dalla gara, le ferite ancora aperte sul volto gli ricordano che quella passione non vale la sua vita; Hunt chiude terzo dopo aver corso come se da quella passione dipendesse proprio la sua vita. L’inglese vince il titolo del mondo, ma anche Lauda ha vinto.
Tutto il mondo ricorderà il campionato del 1976 come quello del suo tragico incidente al Nürburgring. La sua Ferrari a fuoco al Bergwerk, il rosso fuori e il rosso dentro, il contatto con altre due monoposto, il casco che non regge all’impatto. Quel giorno al Nürburgring vinse Hunt ma un po’ vinse anche Lauda. Sempre insieme, due facce della stessa medaglia.
Lauda e Hunt in un’altra vita erano Rossi e Stoner, Federica Pellegrini e Katie Ledecky, Federer e Nadal, Ronaldo e Messi
E poi Niki vinse anche a Monza, vinse arrivando quinto. Tornato sulla sua Ferrari, con un viso segnato per sempre, solo 42 giorni dopo il rogo del Nürburgring. Hunt a Monza si ritirò dalla gara. Vittoria e sconfitta. Due facce della stessa medaglia.
Ma la Formula 1 in Rush è solo un pretesto. Lauda e Hunt in un’altra vita erano Rossi e Stoner, Federica Pellegrini e Katie Ledecky, Federer e Nadal, Ronaldo e Messi.
Nel film diretto da Ron Howard non c’è un buono e un cattivo, e nel cinema è incredibilmente difficile riuscire a non mettere un’etichetta ai propri personaggi. Sarebbe stato così semplice convincere il pubblico che dopo l’incidente che segnò per sempre il suo aspetto, Niki Lauda abbia smesso di essere quell’arrogante e insopportabile pilota austriaco che era. Poetico, no? Cambiato fuori e cambiato dentro. Ma non lo fece. E così non cambiò nemmeno James Hunt dopo aver vinto il titolo di campione del mondo. Non smise di essere la faccia opposta della medaglia, la sregolatezza, la poca fiducia nelle proprie capacità, un cuore troppo facile ai cedimenti, che lo lasciò in un giorno di giugno del 1993. Forse, poi, Ron Howard il suo film lo aveva già spiegato nel titolo. Niente promesse altisonanti di una battaglia memorabile, niente nomi conosciuti o luoghi indimenticabili. Una sola parola, tantissimi significati: sprint, volata, scatto, accelerazione, corsa precipitosa, impegno, affollamento, calca, fretta, assalire e assaltare. Molte cose raccontate attraverso una sola. Facce di una sola medaglia.