Poco meno di tre minuti e mezzo di un ritratto volutamente offuscato. Una cerimonia farsesca di materiali compositi verniciati di rosso inframezzati da collane d'oro e succhi scintillanti versati in coppe di cristallo. L'incedere sicuro viene tradito dalla scontata caducità del messaggio iscritto fra le poche righe. Forse non c'è altra strada. Milano Testarossa è la registrazione di un momento. Il diagramma di una malattia allergica. E come tale, dura poco. Giusto il tempo che i giornalisti si puliscano la bocca dopo la fellatio a Guè e il suo nuovo amico, Artie 5ive. Mi spiego meglio.
"Con l'addolorata impostura / del jazz gridato a tutta furia
dai negri della Cinquantaduesima, / affamati e immobili, aspettiamo / angeli sterminatori a salvarci / da un inverno senza fine,
ma l'eroina non è più quella / di una volta, e le nostre preghiere / mai arriveranno a nessun dio".
Avevo 27 anni quando scrissi per la prima volta questi versi, ma non stavo per morire come Jim Morrison o Basquiat. Non era ancora giunto il mio tempo, e nella claustrofobica sospensione dell'incredulità che sopperiva alle incongruenze astrali e ai buchi di trama della mia vita, mi avevano prestato un disco, forse l'inserto speciale di una rivista fallita, un miscuglio di brani in apparenza dissonanti, scollegati fra loro, che colavano come crema liquida vischiosa dalla juta sbiadita delle casse acustiche. Avevo scoperto il jazz, la musica dei neri, e l'avevo sentita, in profondità, non semplicemente ascoltata. L'avevo sentita, dentro me. Lasciata ondeggiare tra singhiozzi e colpi di tosse granulosa, in una conversazione a senso unico, quello dell'udito, che si dilatava e si restringeva con tanta fretta quanto era invece lento e sudato l'andamento. Come qualcosa che ci mette una vita a venire a capo e sembra non portare da nessuna parte, ma vorresti non finisse mai. Qualcuno mi suggerì che era roba passata e che se volevo qualcosa di distruttivo, dovevo provare con altro. Prima gente come la Sugarhill Gang, gli N.W.A. o Notorious B.I.G., che non è mai troppo tardi scoprirla, e poi tutto il resto, dall'America e dall'Italia. Ma per me il rap stava nello stesso calderone del soul e del metal, e del jazz. Provenivano tutti dallo stesso mixtape. A breve sarebbe esplosa la scena trap e mi sentivo fuori tempo, fuori luogo, un ago bruciato nel fienile di un posto dimenticato da dio, con Charlie Parker e Sonny Rollins che gracchiavano nelle orecchie e sbattevano con tutto ciò che avevo attorno come mosche dentro un bicchiere capovolto. Più o meno la stessa sensazione che provo adesso, con Artie 5ive nelle cuffie. Non sono mai riuscito a prendere sul serio i bianchi che fanno una musica che non è la loro. Ma assieme ai neri, è anche peggio.
"Giriamo a Milano, a Milano / Sopra un Testarossa, Testarossa / Con il vetro basso, con il vetro basso / E la bandana rossa, rossa, rossa".
Milano Testarossa è l'ultimo brano di Artie 5ive con Guè, e non fa niente, assolutamente niente, per tentare di dissipare il vuoto pneumatico dell'asettica scena musicale italiana. Una nota sorda, l'ennesima, nella sorda colonna sonora di un paese in caduta libera che, disperato, si affanna a raccattare i polverosi stilemi di un passato fintamente glorioso, legato a un'idea di benessere plastificato assassinata dagli stessi uomini, prima che dallo stillicidio implacabile del tempo e dagli sconquassi della storia. Alla fine degli anni Settanta, con la disgregazione del rock&roll, la musica stava perdendo la sua funzione sociale. Lo strascico temporalesco del punk aveva annientato tre decenni di virtù unificative e valori trasversali. Il parto sbrigativo di una nuova filiazione maledetta avveniva sul ciglio di una voragine epocale, dove ad ammorbidire l'inganno delle promesse infrante c'era solo la placenta generazionale dei ragazzi neri dei sobborghi, sospesi tra la sofferenza mentale e la sollecitazione del corpo, l'armistizio e la ripresa delle ostilità. Alla frenesia consumistica del fenomeno yuppie, musicata dai suoni effimeri e transitori, si contrapponeva la graffiante lirica sincopata dei ghetti. I giovani neri dimenticati dalla società si erano riuniti attorno alle fiamme delle ruote e dei barili incendiati nella notte, e da quel rito tribale e animalesco, avevano fatto ritorno all'origine del verbo, e non solo, generando il rap. Di tutto questo oggi, non c'è più traccia. Il rap come mezzo della cultura hip hop, il ritorno del linguaggio alla sorgente orale, la poesia ritmata e arrangiata. Il mondo della musica è mutato in una fallimentare versione ex novo, e la musealizzazione del rap ne è la prova più tangibile.
"Spendo in Monte Napo' (almeno un palo) / Sto con G Pequeno (con G Pequeno) / Con il vetro basso (senza il tettuccio) / Mostro il dito medio (vai a fare in cu*o)".
La fotografia sgranata della cilp di Milano Testarossa impatta con il testo della canzone, stride con il ritratto urbano di un'esistenza annegata nel lusso, infarcita d'icone criminogene che provano a elevarsi dalla orizzontalità quotidiana della metropoli. Vagare per Milano in una Ferrari col vetro abbassato e una bandana rossa: lo stereotipo del rapper che ostenta e osanna i prodotti del capitale, dalle caramelle Mentos alla Urus (penso sia una Lamborghini), in una carnevalesca sfilata di luoghi comuni, tra il machismo e lo scoramento, ormai così macchiettistica da suscitare più compassione che sconforto. E le parole non aiutano.
"Gang shit, giro per Milano, sembra Memphis / Sono con i gangsters e le baddies / Rapine in pieno giorno, ti sembra uno scherzo, una candid".
Se il modello rimbaudiano è irraggiungibile, anche nella declinazione sua più variopinta, l'eleganza floreale e selvaggia di Wilde, è altrettanto lontana e inavvicinabile l'estetica degli Hemingway e dei Bukowski, giudicata subdolamente fruibile dall'artificioso gusto prêt-à-porter, sprofondato anche nella letteratura attuale. Il dilemma è meramente cinematografico, riconducibile ai danni fatti da Penn e Scorsese, e ancora di più da Tarantino e i suoi gangster sballati con le pistole impugnate di traverso. Il rap di Milano Testarossa, come tutto quello italiano, è la rimasticatura di un hamburger formato maxi addentato e poi gettato fuori dal finestrino in una strada di periferia, magari prima di passare dallo spacciatore o di vestire una calza femminile e fare una rapina. "
Ma è la vita vera, non è wrestling / Tienici la porta se esci / Versaci del cognac, del brandy / Ti do le mie chiavi, parcheggia / Cinque stelle e G Pequeno".
Il pezzo conclude la sua corsa in una spirale interrotta a un passo dal baratro. Tutto rimane in bilico, con le parole di Artie 5ive che cercano d'incastrarsi nel climax surreale della Milano da bere. Impregnata di bramosia e avidità, la semiotica dell'ambizione si riflette sui frammenti di uno specchio rotto, quello della decadenza. Sì, forse non c'è altra strada.