Come si racconta un film? Quali sono le professionalità che devono essere coinvolte? E, soprattutto, ci sono in Italia? Per il critico Gianni Canova uno dei punti critici del cinema italiano è quello della comunicazione e del marketing, “una parola che farebbe inorridire alcuni miei colleghi autori”, ma che è comunque necessaria. Anzi, quello del “comunicatore del cinema” è uno dei ruoli per cui Canova vede più futuro. Nell’intervista dalla Mostra del cinema di Venezia si è parlato anche della capacità degli autori e degli sceneggiatori di cogliere i bisogni del pubblico: “Spesso si ha come la sensazione che una volta dato l'argomento, il tema, magari socialmente importante, la storia venga da sé”. Ovviamente non è così. Uno dei temi è stato anche il tax credit e la riforma organizzata dal Ministero presieduto dalla sottosegretaria Lucia Borgonzoni e dal ministro Gennaro Sangiuliano che, secondo alcuni, taglierebbe fuori gran parte dei produttori indipendenti. “Che il nostro cinema sia da tempo un po’ troppo di stato mi sembra un dato abbastanza indiscutibile”. È però vero, prosegue il critico, che i “parametri proibitivi” richiesti per l’accesso ai fondi non devono fermare le produzioni: “Se hai davvero la necessità di fare un tuo film il modo di convincere qualcuno a sostenerti lo trovi”. E ci ha detto la sua anche sulle professionalità in Italia, Luca Guadagnino, l’interpretazione dei film e su Netflix, che quest'anno è assente dalla Mostra di Venezia 81.
Gianni Canova, davvero le storie per il cinema devono essere scritte meglio?
Sono d'accordo solo in parte. Concordo semmai con l'idea che il cinema abbia bisogno di nuove storie, non mi importa che siano scritte meglio o peggio, anche perché è molto retorico e relativo parlare in questi termini. È vero che certe storie devono essere più curate, credo però che il tema vero sia la necessità e l'urgenza di trovare nuovi autori capaci di portare una visione che intercetti storie contemporanee, che siano capaci di raccontare il nostro tempo. Vedo che alcuni film italiani qui in concorso alla mostra raccontano il passato, ed è un'operazione molto nobile, però ritengo che ci sia un’urgenza di storie legate al presente e quindi la sceneggiatura diventa fondamentale. Con l'avvento delle serie, poi, a guidare la macchina produttiva è sempre più il team di sceneggiatori, prima ancora che il regista. I registi possono anche cambiare di episodio in episodio, gli sceneggiatori devono restare quelli.
Qual è il difetto nella realizzazione di queste storie?
Spesso si ha come la sensazione che una volta dato l'argomento, il tema, magari socialmente importante, la storia venga da sé. No, le storie non vengono mai da sé, le storie hanno sempre bisogno di uno sguardo e di qualcuno che le racconti.
Forse è anche grazie capacità di capire queste dinamiche che Netflix ha in parte superato le produzioni “classiche”?
Il mondo del cinema è talmente complesso e articolato che c’è spazio per tutti, piattaforme e case di produzione. Quest'anno non c'è Netflix, tra l'altro, qui a Venezia, e comunque abbiamo visto opere notevoli. Netflix ha una linea editoriale molto rigorosa, molto precisa e a suo modo rispettabile, come tutte le linee editoriali. Ma non sono certo che sia quella giusta per parlare di oggi.
Per intercettare i bisogni, però, forse occorre agire anche durante la promozione di un’opera.
Qui tocchiamo, secondo me, il vero tallone d'Achille, soprattutto per il cinema italiano, cioè la comunicazione e il marketing, una parola che farebbe inorridire alcuni miei colleghi autori. La mia sensazione, ed è più che una sensazione, è che se negli Stati Uniti un film costa 100 milioni se ne investono altri 100 anche nella comunicazione. Da noi, se costa 10, se va bene si investe 0,5 nella comunicazione. E spesso le procedure di lancio sono ancora quelle di 30 anni fa, sono sempre legate al singolo film. Spesso gli stessi registi o attori si spendono per il singolo film a cui hanno lavorato, non capendo che invece il loro obiettivo dovrebbe essere quello di spendersi per promuovere il cinema, l'amore per il cinema, la passione per il cinema, come facevano i grandi del passato.
Cos’è cambiato?
Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Michelangelo Antonioni o Federico Fellini non si spendevano solo per promuovere il proprio film, ma scrivevano sulle riviste, intervenivano nei convegni, facevano tutto il possibile per promuovere il cinema in generale. Detto questo, io credo che sulla comunicazione, sul marketing ci sia veramente un grosso lavoro da fare, che serva uno scatto di fantasia.
Lei cosa si aspetta in questo senso?
Sogno un cinema che sappia offrire al proprio pubblico il bicchiere d'acqua, la Coca Cola o il gin tonic a seconda dei momenti e dei desideri.
Forse ci si è un po’ accontentati, magari, nella ricerca di talent che possano richiamare il pubblico in sala.
Vedo un po' di pigrizia, un po' di vischiosità nella convinzione, appunto, che il nome di quel talent, la possibilità di spenderlo, porti automaticamente il pubblico al cinema. Ripeto: è necessario lavorarci di più. Le professioni del comunicatore o del marketing del cinema sono quelle che secondo me hanno più futuro, perché in Italia non ci sono. Quindi forse servirebbe qualche corso in meno di regia, di sceneggiatura, di recitazione, e qualche corso di marketing in più. Questo garantirebbe posti di lavoro a chi riuscisse a inventare nuovi modi di comunicare.
A proposito di posti di lavoro: per molti la riforma del tax credit sarà un duro colpo per gli indipendenti. Lei come la vede?
Il fatto che il nostro cinema sia da tempo un po’ troppo di stato, un po' troppo conformista, un po' troppo allineato al gusto dello spettatore medio, mi sembra un dato abbastanza indiscutibile. Quindi che fosse necessario un qualche intervento era evidente. Bisognerebbe trovare un equilibrio che garantisca il sostegno a quelli che sono veramente indipendenti e hanno idee e urgenza di storie da raccontare. Ovviamente è una cosa complicata, però il dibattito è in corso, e quando c'è una discussione aperta e franca come quella che si sta sviluppando i risultati prima o poi arriveranno.
I parametri che vengono richiesti, sia in termini di distribuzione che in termini di budget, sono abbastanza proibitivi per gli indipendenti.
Lo sono, senza dubbio. Però mi sento di dire una cosa forse impopolare: se hai davvero una storia da raccontare, la necessità di fare un tuo film, il modo di convincere qualcuno a sostenerti lo trovi.
In Italia, poi, come dimostra Queer di Luca Guadagnino, ci sono anche delle professionalità importanti.
Anche qui il discorso è ampio e riguarda la formazione. Nel senso che troppo spesso le scuole di cinema, le scuole professionali, hanno cercato di formare o sono stati approcciati da giovani che sognavano di essere Orson Welles o David Lynch. Solo che di artisti così ne nasce uno a generazione, se va bene, e quindi forse, con tutto il rispetto, se le scuole formassero dei professionisti capaci di mettere a disposizione le proprie competenze, la propria passione, la propria visione, dentro grandi produzioni, allora questo potrebbe essere un elemento di svolta.
Parlando con Marco Giusti è emerso che, in alcuni casi, una certa generazione di critici fa fatica a interpretare i film nel modo corretto. Lui faceva l’esempio di Challengers, definita da molti, forse erroneamente, “un’opera gay”.
Esiste un unico modo di vedere un film oppure ci sono tanti Challengers quanti sono gli spettatori? Per me, per esempio, Challengers è un grande film sul rapporto che c'è tra il rettangolo del campo da tennis e il rettangolo dello schermo. Qualcun altro potrà vederci il tema gay o qualcos'altro ancora. Io ho goduto vedendo quel film. Perché mi ha fatto rileggere David Foster Wallace nelle sue pagine indimenticabili sul tennis. Non mi piace quando si dice qual è il tema vero di un film: chi lo stabilisce?