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Gianni Canova bacchetta il mondo del cinema: “I fondi pubblici devono andare in comunicazione e marketing”. E sul politicamente corretto: “Certe posizioni sono follia pura...”

  • di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

24 dicembre 2023

Gianni Canova bacchetta il mondo del cinema: “I fondi pubblici devono andare in comunicazione e marketing”. E sul politicamente corretto: “Certe posizioni sono follia pura...”
Perché i film d'autore restano così poco tempo nelle sale? Colpa della concorrenza delle grandi produzioni o delle piattaforme? Abbiamo intervistato il critico Gianni Canova per rispondere a queste domande: “Gli esercenti non fanno beneficenza: se un film non funziona lo sostituiscono con un altro”. È la normale risposta del mercato, sembra dirci Canova. Per rimediare a questa difficoltà occorre comunicare il proprio film in modo diverso, investendo più sul lato marketing: “Non si possono usare risorse pubbliche per finanziare solo le produzioni”. Tra i passaggi dell’intervista anche il tax credit, il politically correct nel cinema e il ruolo degli attori

di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

Ci sono parole fastidiose per chi si considera un autore: marketing, comunicazione, promozione. Parole che inquinano l’estetica delle proprie opere, che infangano il buon nome dell’arte. Quest’ultima è l’estremo baluardo contro il consumo delle merci e non deve, almeno lei, piegarsi alle logiche del mercato. Il problema di questo atteggiamento? Le sale vuote nei cinema. Inutile prendersela con i gestori o con il pubblico ignorante. Abbiamo intervistato il critico Gianni Canova per chiedergli un parere sulla questione. In particolare, il riferimento era al film Misericordia di Emma Dante che, come la stessa regista ha scritto su Facebook, sarebbe stato cannibalizzato da altre produzioni dopo poche settimane dall’uscita: “Dobbiamo usare del denaro pubblico per mantenere in programmazione un film a sale vuote?”, si domanda Canova. L’accesso ai fondi pubblici è decisamente poco selettivo. Inoltre, sottolinea ancora il critico, gran parte delle risorse sono dedicate alla produzione: “Bisognerebbe invece usarle per far crescere la cultura, la competenza cinematografica, per sostenere in qualche modo le sale e la distribuzione”. Una posizione, come lui stesso ammette, decisamente impopolare, specie se si pensa che le stesse produzioni riescono a sopravvivere proprio grazie al tax credit, all’impiego di soldi pubblici. Sembra non esserci scelta, dunque: anche gli autori dovranno abbandonare l’idea dell’opera come oggetto intoccabile, adattandosi alle necessità della comunicazione odierna. La creatività, ad ogni modo, può essere anche al servizio di una campagna di marketing. Lo dimostra la casa di produzione A24 negli Stati Uniti e lo ha dimostrato anche Alice Rohrwacher per il suo La chimera: lei e il protagonista Josh O’Connor (che sarà anche nel prossimo film di Luca Guadagnino con Zendaya) hanno registrato un video, pubblicato poi sui social, in cui spingevano gli spettatori ad andare nei cinema vicino casa e chiedere agli esercenti di proiettare il film. Uno scherzo, certo, ma fino a un certo punto. Il risultato è stato un incremento del 76% degli incassi nella seconda settimana in sala. Canova ha descritto l’intervento di Rohrwacher come “intelligente e a suo modo appassionante. È riuscita a generare curiosità, interesse e anche la consapevolezza che quel prodotto esiste”. Poi l’intervista ha virato su altri temi: che ruolo hanno gli attori nel panorama commerciale dell’audiovisivo? Sono pochi i nomi che riescono a chiamare in sala il grande pubblico. Forse solo uno, Pierfrancesco Favino, con cui però Canova non condivide alcune posizioni (ogni riferimento alla polemica con Adam Driver per Ferrari non è affatto casuale). Un cinema, quello di oggi, che ha bisogno di limiti, di misura e di strumenti come l’intimacy coordinator per le scene più “spinte”. Senza ambiguità, Canova sottolinea la miopia del politicamente corretto e analizza Io Capitano di Matteo Garrone, candidato ai Golden Globe per Miglior film internazionale.

Emma Dante, regista del film "Misericordia"
Emma Dante, regista del film "Misericordia"

Gianni Canova, hanno fatto discutere le parole di Emma Dante, che su Facebook si è lamentata per il fatto che il suo film, Misericordia, dopo poche settimane dall'uscita, era rimasto solo in quattro sale. Lei cosa ne pensa?

Dietro la protesta di Emma Dante, che io stimo come cineasta, c'è però quell'atteggiamento, che invece non stimo per niente, di chi disprezza il pubblico che non va a vedere i propri film. Non è che gli esercenti siano lì per fare beneficenza. Gli esercenti sono dei piccoli imprenditori che devono chiudere i loro bilanci e se un film non funziona lo sostituiscono con un altro. Il problema è riuscire a costruire dei film che arrivino al grosso pubblico. Non puoi pretendere simultaneamente di fare film di nicchia e che poi vadano a vederlo le grandi masse. Soltanto i grandi geni ci riescono.

Ci sono oggi degli esempi?

Faccio un titolo per tutti: Oppenheimer. Quando ci sono film anche sperimentali, ma che non disdegnano un linguaggio accessibile a tutti, il pubblico va a vederli. C'è un po’ un atteggiamento snobistico in un certo cinema d’autore, che si pretende carismaticamente unto dal Signore e che vorrebbe privilegi e non si interroga sul proprio statuto, sulla propria realtà, sulla propria relazione col pubblico. Io sono convinto che il cinema d'autore sia il cinema più di genere che esiste oggi in Italia.

In che senso?

I cosiddetti film d’autore rispondono a dei canoni che sono costruiti a tavolino per andare ai festival, per avere consenso negli eventi internazionali. Del pubblico interessa molto poco e quindi credo che la vecchia distinzione tra cinema di genere e cinema d'autore non tenga più. Se nessuno andava a vedere il film di Emma Dante perché avrebbe dovuto restare nelle sale? Dobbiamo usare del denaro pubblico per mantenere in programmazione un film a sale vuote? Forse c'è da fare un lavoro di comunicazione, di marketing, parola che gli autori odiano. Invece di usare tutte le risorse pubbliche per produrre film che nessuno va a vedere bisognerebbe far crescere la cultura, la competenza cinematografica, per sostenere in qualche modo le sale e la distribuzione e non sempre soltanto la produzione. È una posizione molto radicale la mia.

La casa di produzione A24 negli Stati Uniti fa delle campagne marketing d'autore, in Italia questa cosa si dovrebbe fare di più?

Da noi non si fa quasi nulla, nel senso che la comunicazione, la promozione e il marketing del cinema sono a livelli ancora assolutamente embrionali. Si rischia poco, si investe poco in altri contesti culturali, economici e sociali. Negli Stati Uniti e in Francia se un film costa 100 si investe almeno 80 nella comunicazione. Da noi se un film costa 10 se va bene si investe lo 0,5. C'è proprio una sproporzione. A24 è molto acuto e penetrante, in Italia c'è solo qualche tentativo. Da noi i successi, penso a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, sono ancora legati a quella forma di comunicazione primitiva, ma sempre efficacissima, che è il passaparola. Non c'è stata una pianificazione ragionata e strategica. Per carità, ben vengano i film come quello.

Qualcuno direbbe che Cortellesi è stata furba per la scelta del tema.

Io non ritengo che, quando anche ci fosse furbizia, questa sia un disvalore. È importante intercettare umori, sentimenti, fantasie, bisogni, nodi irrisolti, nervi scoperti del mondo in cui c'è dato vivere.

Il video pubblicato da Alice Rohrwacher (regista de La chimera) è stata una mossa intelligente dal punto di vista della promozione.

Sì, è l’esempio che si può fare anche in Italia qualcosa del genere. Un intervento d'autore intelligente e a suo modo appassionante come quello riesce a generare curiosità, interesse e anche la consapevolezza che quel prodotto esiste. Perché poi nel flusso infinito di comunicazioni che ci investe ogni giorno, anche solo venire a sapere dell'esistenza di un film e della sua fruibilità in sala è cosa non da poco.

Quindi il discorso dei film d’autore “cannibalizzati” dalle grandi produzioni come Wonka non regge secondo lei?

No, non riesco proprio a capire che tipo di polemica ci sia. Allora il film di Martin Scorsese cos'è? È una grande produzione o è un film d’autore? Io adoro Scorsese, adoro anche il suo ultimo film, ma ha avuto un budget più alto di quelli di un medio film Marvel. Quindi stiamo attenti a usare queste categorie, “le megaproduzioni”, “le multinazionali”. Un film italiano di Saverio Costanzo è costato alcune decine di milioni di euro, eppure è un film d'autore. Non si può tagliare con l'accetta il ramo delle produzioni.

A proposito del tax credit: vengono spesi pochi soldi in marketing perché le produzioni spingono per avere queste agevolazioni solo per sé?

Assolutamente sì. Per di più con il tax credit non selettivo si finanzia praticamente di tutto e spesso i produttori riescono a rientrare e a fare il loro margine. Hanno poi poco interesse a promuovere il film, farlo circuitare. È un meccanismo un po' distorto da questo punto di vista: bisognerebbe riparametrare la distribuzione delle risorse nei vari comparti della filiera.

È di pochi giorni fa la notizia del contratto collettivo per gli attori: secondo lei possono avere un ruolo in questo aggiustamento del tax credit?

Sì, anche se il ruolo degli attori nella profilazione del percorso commerciale di un film è molto meno rilevante rispetto a prima. C’è un unico attore oggi il cui nome nel cast garantisce un incremento di incassi: Pierfrancesco Favino. Gli altri, sia maschili che femminili, non hanno più quel peso così rilevante nelle scelte del pubblico. Anche perché spesso poi gli attori sono legati a compensi che risalgono ad alcuni anni fa, a prima del Covid, quando la redditività era più alta.

Questo come cambia le cose?

A parte i segni di ripresa degli ultimi mesi, la crisi sembra profonda e tale da non giustificare certi compensi dati agli attori. Siamo in una situazione paradossale per cui, prima del successo di C'è ancora domani e di Oppenheimer, c'era un calo clamoroso della domanda di film in sala. A questo calo della domanda noi rispondevamo con un gesto che va contro ogni legge di economia politica.

Cioè?

Che noi aumentavamo l'offerta. A fronte di una domanda in calo, finanziavamo con il tax credit non selettivo chiunque, quindi mettevamo sul mercato un numero abnorme di film. In genere l'offerta aumenta se aumenta la domanda. È assurdo fare l'opposto. Quindi finanziavamo un numero spropositato di film, la maggior parte dei quali aveva pochissime o nulle possibilità di arrivare in sala e di incontrare il pubblico, anche per i motivi che dicevamo prima. Quindi bisognerebbe davvero riparametrare il tutto e capire che, forse, nella fase attuale, l'intervento più urgente è quello di andare a sollecitare la domanda.

Paola Cortellesi in "C'è ancora domani"
Paola Cortellesi in "C'è ancora domani"

Come farebbe questo aggiustamento?

Ripeto, per quanto mi riguarda il sostegno alle produzioni è l'ultimo dei problemi oggi. Dico una cosa molto impopolare, ma penso che oggi il sostegno dovrebbe andare alla comunicazione, al marketing e alla creazione. Noi siamo un paese di analfabeti filmici rispetto ad altri paesi europei. Siamo l'unico paese che non prevede l'insegnamento della media literacy, quindi l'insegnamento dei media audiovisivi nelle scuole. Poi ci stupiamo che il nostro pubblico è meno pronto di quello francese. Secondo me l'urgenza è la creazione di un pubblico competente.

E la distribuzione?

Il sostegno maggiore dovrebbe andare anche lì. Chi ha veramente l'urgenza di raccontare una storia con le nuove tecnologie riesce a farlo. È come quando è arrivata la Nouvelle Vague: quei ragazzi hanno dimostrato che si potevano fare film con molti meno soldi di quanti non ne venissero spesi per il “cinema di papà”. Io credo che potremmo essere alla vigilia di una stagione così.

Ha parlato di preparazione del pubblico: questa è una risposta anche a coloro che vogliono limitare certe espressioni, certi tipi di violenza esplicita nelle canzoni, soprattutto nel rap o nella trap?

Gli artisti non devono limitare niente. Io credo che sia una questione di cultura, di competenza. Bisogna aumentare la democrazia culturale. In assenza di quella ovviamente è facile prendersela con gli artisti.

Nel contratto ottenuto dagli artisti esiste una nuova figura: l'intimacy coordinator. Lei cosa ne pensa?

Non ho capito bene cosa dovrebbe fare, però su questo non do giudizi, nel senso che il cinema sta cambiando. Il cinema che ho amato io non ne aveva bisogno. Il cinema del futuro non lo so.

E invece dell'iniziativa Cinema Revolution?

Non ho seguito la cosa, quindi non so che effetto ha prodotto. So che gli esercenti non sono contentissimi, perché gli introiti sono più bassi anche se il pubblico aumenta. Ma sono tutti correttivi che saltano il problema fondamentale: il fatto che il pubblico senta che un film lo può arricchire, gli può dare un incremento emotivo, cognitivo ed emozionale. Anche se costa 10 euro lo va a vedere e lo dimostrano i casi di C'è ancora domani, Oppenheimer, Barbie, ma anche di La stranezza di Roberto Andò. Non è vero che il film d'autore non funziona. Il cinema non è come il pane, per il quale il prezzo può essere calmierato.

I social poi sono un passaparola potenziato.

Certo, lo sforzo va fatto in quella direzione, per aumentare l'attrattività, per rendere il cinema più “sexy”: se non sei andato a vedere quel film sei out, sei tagliato fuori. Questo va fatto per il maggior numero di film possibili. Abbassare il prezzo per qualche mese secondo me lascia il tempo che trova.

Oppenheimer
"Oppenheimer" esempio di film d'autore e di successo

Io Capitano ai Golden Globe ha delle chance reali?

Potrebbe averle e sono sicuro che si batterà. Con un unico limite legato anche questo alla cultura del politicamente corretto: qualcuno potrebbe dire che una storia così, raccontata da un cineasta bianco, occidentale, eterosessuale, probabilmente benestante non è credibile. Io detesto queste prese di posizione, perché se fosse così Flaubert non avrebbe potuto scrivere Madame Bovary: come fa un maschio a mettersi nella testa di una donna? Soprattutto negli Stati Uniti posizioni di questo tipo potrebbero esserci e potrebbero in qualche modo nuocere al film di Garrone. A suo vantaggio c'è il fatto che, oltre a essere un bellissimo film, ha saputo dare forma a un problema vero. Questo non è un film “miserabilista”, che racconta il viaggio della speranza di disperati e morti di fame.

Lei che lettura ne ha dato?

I ragazzi protagonisti decidono di investire tutto quello che hanno per inseguire un sogno: rischiano, imparano in fretta dall'esperienza e alla fine uno dei due diventa capitano. È la vera metafora dell'imprenditoria. E questo in un paese come gli Stati Uniti potrebbe piacere.

La cultura del politicamente corretto è quella che negli Stati Uniti vede con sospetto gli attori eterosessuali che interpretano personaggi omosessuali.

La follia è assoluta. La stessa cosa quando Favino dice che i ruoli italiani devono essere fatti da attori italiani. Ma l'arte non ha confini. La recitazione è proprio quella di metterti nei panni di un altro. Quanto più è altro da te quello che interpreti, tanto più è forte la sfida, tanto più è bella l'esperienza.

Favino forse lo diceva più in un’ottica pragmatica: far raccontare delle storie italiane ad attori americani e a produzioni americane danneggerebbe l'industria del nostro paese.

Bernardo Bertolucci ha scelto Gérard Depardieu e Burt Lancaster per fare dei contadini o dei possidenti emiliani. Federico Fellini ha scelto Donald Sutherland per fare Casanova. Devo andare avanti? Il cinema non ha confini, per come la vedo io. Quanto più si irrigidisce nella difesa di una solo identità, tanto più è destinato a morire.

Pierfrancesco Favino
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