Barbie di Greta Gerwig non accenna a frenare la sua corsa: il 7 agosto è stato raggiunto il miliardo di dollari al botteghino dopo neanche 20 giorni di proiezioni. L’incasso ha reso Gerwig la regista più (economicamente) di successo dell’intera storia del cinema, superando Patty Jenkins, la quale era riuscita a ottenere “solo” 800 milioni di dollari per Wonder Woman nel 2017. Jennifer Lee e Anna Boden avevano anch’esse superato il miliardo, rispettivamente con Frozen e Captain Marvel, ma per due film co-diretti. La coppia Gerwig-Bumbach per la sceneggiatura, le superstar Margot Robbie e Ryan Gosling, un cast di supporto composto da Issa Rae, America Ferrera, Kate McKinnon Will Ferrel, Jhon Cena, le voci di Hellen Mirren e Dua Lipa, a questo punto tra le maggiori candidate all’Oscar per miglior canzone originale nel 2024: grandi nomi per un film che non ha badato a spese. Ma non sono stati solo i volti dei protagonisti a trainare la pellicola. La Mattel ha infatti sfoderato tutto il suo arsenale di prodotti, mettendo in mostra ogni sorta di bambola (dalla Barbie incinta fino alla Barbie in sedia a rotelle), ogni accessorio, case e casette, macchine e barche. Tutto molto rosa. L’obiettivo era raggiungere un target decisamente ampio di pubblico, arrivando a cogliere l’interesse sia delle bambine che delle donne più grandi. Per le prime si cercava l’effetto “wow” mentre per le seconde si trattava di suscitare un po’ di nostalgia per un mondo, Barbieland, in cui si poteva letteralmente diventare chiunque. Chi ha giocato con le Barbie rivedeva quegli oggetti e si ricordava di quando, da giovane, le speranze erano tante anche se il mondo là fuori avrebbe fatto di tutto per impedirti di soddisfarle. È la stessa Hellen Mirren a farcelo sapere all’inizio del film, nella scena in cui la Barbie stereotipo prende il posto del monolite nero di 2001: Odissea nello spazio. “L’alba dell’umanità” è donna. Anche le citazioni filmiche non sono casuali ma attingono a piene mani da un registro comune a tutti, in cui segni e significati sono immediatamente decifrabili. Matrix per la famigerata scelta tra i tacchi a spillo e le Birkenstock, Il padrino utilizzato come esempio di “film da uomini che deve essere spiegato alle donne”, The Lego Movie e Toy Story come antenati delle storie di giocattoli. Ma anche The Truman Show, che ricalcava la stessa contrapposizione tra mondo vero e mondo illusorio. E la Barbie stereotipo interpretata da Margot vuole trovare proprio questo: la verità.
Scoprirà che nel mondo reale sono gli uomini a comandare. Farà subito esperienza del catcalling più sfacciato e di altre forme di violenza diffuse, in primis l’esclusione delle donne dal consiglio della Mattel. Il nucleo tematico fondamentale è, com’è noto, la questione femminile e la lotta al patriarcato. Ovviamente, è su questo che il pubblico si è diviso. C’è chi dice che il film riesce a trattare temi elevati in maniera semplice e giocosa, rendendo comprensibile una problematica complessa, che riguarda le radici più profonde della società in cui viviamo. In questo senso, la Barbie è stata innovativa: l’irriverente bambola ha voluto lanciare il messaggio per cui “le donne non sono solo madri ma possono essere belle e sfacciate senza vergognarsi”. Sono poi seguiti gli altri modelli di Barbie, volti all’ampiamento degli strumenti di empowerment femminile: Barbie-chirurgo, Barbie-presidente e così via. Persino il rosa è un tema di rivendicazione. Tradizionalmente simbolo del mondo femminile, l’impiego smisurato di tutte le tonalità possibili vuole dimostrare che, al di là delle banali associazioni, si può usare il rosa per libera scelta e non solo per abitudine. Le donne sono donne e non devono per forza assomigliare agli uomini vestiti in completo nero che comandano la Mattel. Alcuni, dallo schieramento opposto, hanno sottolineato come l’atmosfera da favola ostentata dal film sia in realtà un espediente utilizzato per mascherare una superficialità filosofica: parlare di femminismo in quel modo significa banalizzare una questione che ha una storia secolare. Il pensiero grossolano di Barbie non può farsi carico di una simile eredità. Non bastano i vestitini rosa e qualche “pensiero di morte” per rendere complesso un personaggio banale. Inoltre, utilizzare uno dei simboli del consumismo più efferato come la Barbie a manifesto del proprio femminismo significa piegarsi ai meccanismi economici che hanno contribuito largamente alle discriminazioni di genere. La bambola irriverente non potrà mai essere davvero progressista. Quest’ultimo punto viene affrontato brevemente nello scambio tra Barbie/Margot e Sasha (Ariana Greenblatt). La ragazza ha un punto: la bambola ha costituito un modello irraggiungibile di perfezione, mettendo a disagio tutte coloro che non potevano raggiungere quegli standard estetici. Non basta, dicono i detrattori, che la madre Gloria (America Ferrera) dica: “Barbie serviva a mostrare ciò che le donne potevano diventare!”. Troppo debole come giustificazione. Per non parlare di Ken, talmente idiota da far sembrare le Barbie che si sono fatte abbindolare dalla sua idea di patriarcato ancora più idiote.
È la politica, dunque, prima ancora che il cinema, a far discutere. Di base non c’è niente di male. Ogni film veicola un messaggio: se tra questi c’è una presa di posizione ideologica (in questo caso il termine non possiede nessuna accezione negativa, sia chiaro) è giusto che se ne parli. Ben vengano i dibattiti. Dobbiamo accettare che uno scontro così acceso tra due schieramenti possa far perdere di vista qualche imperfezione. Sono un po’ trascurate le spiegazioni riguardanti l’influenza tra mondo reale e Barbieland, la conversione delle bambole da donne in carriera indipendenti a ingenue sostenitrici del patriarcato è un po’ repentina e la coppia madre-figlia protagonista della seconda parte appiana senza particolari problemi la forte tensione che caratterizzava il loro rapporto. Accade tutto un po’ di fretta, questo è innegabile. Ma, di nuovo, è la politica che sta al centro. C’è però un elemento implicito, che solo in maniera indiretta è stato analizzato. Sia i sostenitori che i critici hanno dato per scontato che, per quanto radicale, bombarolo, controcorrente e rivoluzionario un messaggio possa essere, questo deve essere garantito da una sola e fondamentale cosa: una valanga di milioni spesi in marketing. Il valore di un’idea è direttamente proporzionale all’impiego delle risorse messe in campo per divulgarla. Niente di nuovo, direte. Ma l’arte non era quella cosa pretendeva di avere valore per il suo contenuto e non solo per l’appetibilità a livello di mercato?
Il Sole 24 Ore ha pubblicato alcuni dati che ribadiscono l’effetto di Barbie sull’economia: il marchio Mattel ha raddoppiato il proprio valore rispetto a due anni fa, toccando il tetto dei 700 milioni, mentre Birkenstock potrebbe raggiungere i 10 miliardi di dollari di quotazione in borsa (dopo il film le vendite sono aumentate quasi del 30%). Se a suscitare l’interesse pubblico sono solo questo genere di produzioni, cosa rimane di tutte quelle che non possono permettersi 200 milioni di dollari in campagne promozionali? Davvero ci accontentiamo di un paio di eventi all’anno per tornare al cinema e parlare di politica il giorno dopo? E non ci dà nemmeno un po’ fastidio che qualcuno si stia arricchendo mentre si prende gioco della nostra superficialità? Va bene il rosa, la favola femminista, la critica alla superficialità, la canzoncina di Ken, l’inutilità di Jhon Cena, Odissea nello spazio. Tutto lecito. Eppure, nel delirio di colori e opinioni, tra le manie di persecuzione dei maschi Incel e i paradossi di quelli che “ognuno è libero di diventare uno stereotipo” (che altro non è se non la parafrasi di “ognuno è libero di diventare schiavo”), ci stiamo dimenticando di qualcosa. Una sensazione di impotenza dovuta all’impossibilità di sottrarsi a quel meccanismo che ci porta a guardare solo la montagna all’orizzonte, dimenticandoci della valle che sta ai suoi piedi. Brillare più degli altri, sempre, anche se di luce riflessa. E alla fine, machisti e non, ci sforziamo di sembrare più belli, più costosi. Più tutto, più di tutti. Rendendo invisibili coloro che lottano ogni giorno per proporre qualcosa di diverso. Pisciando su tutto ciò che non regge il confronto con le colossali fiabe raccontate dai potenti. L’apparenza mascherata di una perpetua gara a chi ce l’ha più lungo. Con o senza pisello.