Oggi vogliamo tornare sul tema del “politicamente corretto”, la nota bestia che, lasciata libera, può divorare ciò che trova appetibile senza rendersi conto dello sfacelo che lascia. Vogliamo tornarci perché esiste ancora chi tenta di insabbiarne il senso, mettendone addirittura in dubbio l’esistenza. Ci siamo trovati per caso ad ascoltare due giovani conduttori su Radio Capital (appartenente al gruppo editoriale Gedi, come il quotidiano la Repubblica), un certo Marco Maisano e una certa Florencia Di Stefano, che dallo scorso giugno conducono una trasmissione titolata “Generazione Capital”. Tutto sommato è un programma simpatico, se non fosse per la velata spocchia che i due millennial lasciano talvolta trasparire, come nel giorno in cui sono arrivati a mettere in dubbio la reale esistenza del politicamente corretto nella nostra cultura, con frasi di sufficienza del tipo: «Ma questo politicamente corretto di cui parlano, non si sa nemmeno cosa sia», «se ne discute, ma non si capisce bene, in fondo neanche sappiamo se esiste davvero», e altre amenità superficiali. In pratica, questi due giovani vorrebbero di farci passare per dei fissati che s’accaniscono su una questione campata in aria, mentre invece si tratta di un’ideologia ben reale che sta pervadendo molte discussioni, più o meno pubbliche, in una deriva subculturale decisamente pericolosa.
È inaccettabile questo tentativo di inganno, visto che la stessa Concita De Gregorio, loro “collega” nel medesimo gruppo e virtualmente la loro “zia”, si è lagnata pubblicamente proprio della dittatura del politicamente corretto che sta tarpando le ali a troppe manifestazioni del pensiero e l’ha recentemente bastonata per i suoi interventi maldestri sui “decerebrati”: «A margine penso che sia comunque la morte del contesto. Autorevolissimi pensatori e filosofi, financo semplici scrittori lo hanno spiegato prima e meglio di me. Mi limito a confermare. Il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando il pensiero e l’azione – specie a sinistra». Avete letto bene, Marco Maisano e Florencia Di Stefano? Quindi, lasciate da parte l’arroganza della gioventù e rimettetevi coi piedi per terra, senza cercare di prenderci per il sedere.
Il politicamente corretto può essere utilizzato in vari modi: in modo stupido, in modo ideologico, in modo disonesto e in modo crudele. Il modo crudele di esercitare il politicamente corretto è probabilmente il peggiore, perché ha i denti aguzzi, morde la carne e non si perita nemmeno di camminare sui cadaveri. Ne volete un esempio? Vediamolo. Come sapete, la vicenda della giovanissima Saman Abbas, diciottenne pakistana residente a Novellara che si era ribellata a un matrimonio combinato dalla famiglia secondo le regole patriarcali di stampo islamico, imposte a molte ragazze come lei, ha avuto uno sviluppo importante. Il padre, catturato dopo la fuga in Pakistan insieme alla moglie – che resta latitante – è stato finalmente estradato in Italia. La vicenda fu terribile: Saman si era rifugiata in una struttura, ma poi, rientrata a casa con l’assicurazione che avrebbe potuto recuperare i suoi documenti e altri beni personali, è stata attirata dalla madre nel campo vicino per essere uccisa dai parenti e sepolta. I suoi resti, cercati per un anno e mezzo, sono stati ritrovati lo scorso novembre grazie alle indicazioni di uno zio incarcerato, in una buca profonda dentro un casolare vicino all’abitazione della famiglia.
Questo caso di “femminicidio” è ancora più sconvolgente perché commesso in modo premeditato da un’intera famiglia, per motivi d’onore, su una figlia poco più che adolescente. E la scarsa attenzione che l’attivismo femminista – quello che impazza sui media – prestò a questo assassinio feroce colpì molti: un fatto evidente che fatica a trovare una spiegazione razionale, anche se il motivo di un disinteresse così increscioso non è difficile da trovare. Come sappiamo, gran parte dell’attivismo progressista in cui il femminismo si inscrive, più che a migliorare realmente le cose – un compito difficile che richiede tempo e generazioni – serve a crearsi un’appartenenza e a mettersi al sicuro, stando dalla parte dei giusti. E da noi l’attivismo femminista non è quello che si vedeva in Europa più di cent’anni fa: a quei tempi – pensiamo alle suffragette che lottavano per il diritto di voto alle donne – chi si lanciava nella lotta femminista rischiava di perdere tutto: la reputazione, la famiglia, anche la libertà; erano donne combattenti che potevano venir brutalizzate, a volte uccise. Ci voleva coraggio, si doveva essere forti e determinate, pronte a rischiare tutto. Oggi, invece, non dovendo più lottare per quei diritti fondamentali, l’attivismo femminista viene sfruttato per aggiungere nuovi trofei alla lotta permanente contro la mentalità maschile e maschilista considerata “tossica”, e può anche servire a ottenere visibilità e legittimazione: le attiviste più scaltre e immanicate l’hanno usato come ascensore sociale, arrivando alla notorietà, a scrivere sui giornali, a pubblicare libri, a condurre programmi radiofonici e a stare in televisione.
Il loro compito primario, quindi, non è occuparsi dell’oppressione femminile legata all’immigrazione, dove si è trovata Saman, perché è una questione complessa e rischiosa, troppo legata all’incontro/scontro di culture, e le neo-femministe non amano affrontare questo tipo di rischi. Loro si concentrano sulle questioni più domestiche legate, oltre che al dramma dei “femminicidi”, alla repressione dei comportamenti maschili violenti, di quelli ritenuti “tossici” o sessisti, alle parole che dovrebbero essere tolte dai vocabolari e a quelle che non devono più essere pronunciate, insomma su una serie di cose per le quali non si rischiano né la vita né la reputazione. Preferiscono gridare contro il patriarcato nostrano, molto meno pericoloso di quello assoluto e feroce di stampo islamico, che in quella famiglia pakistana è arrivato al punto di uccidere una figlia e occultarne il cadavere. Per le femministe di oggi prendere di petto quella realtà di violenza sarebbe temerario, e il fatto che abbiano lasciata sola Saman, anche dopo che è stata trucidata, ne è testimonianza.
Ma passiamo al caso di cui vogliamo parlare, un problema grave e inquietante che riguarda la nostra informazione, cioè come i media usano orientare i propri messaggi per condizionare l’opinione pubblica. Per capire l’attinenza con questo caso bisogna tornare indietro di oltre vent’anni, quando Saman ancora non era al mondo. Nel 2001, dopo che l’islam terroristico rase al suolo le torri gemelle del World Trade Center di New York facendo una montagna di morti, la giornalista Oriana Fallaci, che si trovava poco distante, scrisse una serie di articoli furenti contro l’islamismo, partendo ovviamente da quello più violento e pericoloso, parlandone così male e maledicendolo a tal punto – anche in libri successivi – che la nostra opinione pubblica rimase traumatizzata, perché si creò una spaccatura fra quelli che le davano ragione e quelli che invece la osteggiavano scandalizzati, definendola una donna intollerante, fascista, islamofoba, e per questo una persona disgustosa da disapprovare ed evitare. Questo fenomeno collettivo fatto di schieramenti, che possiamo definire “Trauma Oriana Fallaci”, continua a pesare sulle opinioni e sull’immaginario del nostro Paese, tanto che ancora se ne vedono gli effetti nei giornali, nelle televisioni e in tutto ciò che fa opinione pubblica.
Ora vi mostriamo cosa è successo in un editoriale dello scrittore Roberto Saviano sul supplemento “7” del Corriere della sera, in cui si doveva parlare proprio della tragedia di Saman, i cui resti non erano ancora stati trovati. Questo intervento potremmo definirlo “editoriale-scimmia”, ossia un articolo pretestuoso che parla di cose che non c’entrano con l’argomento dichiarato – spesso scimmiottando temi-chiave copiati da altri articoli o post pubblicati sui social e assemblati in modo poco coerente – al solo scopo di distrarre e deviare l’attenzione del lettore, facendo passare il messaggio prestabilito, qui condizionato totalmente dal Trauma Oriana Fallaci. Un trauma che ancora oggi tende a imporre a gran parte dei nostri media l’obbligo di non criticare o attaccare l’Islam, in qualsiasi forma, per non alimentare l’islamofobia e non offrire vantaggi alla parte politica “di destra”, che è considerata nemica. In questo modo, se le neo-femministe gridano alla mascolinità tossica, alle frasi tossiche contro la donna e così via, è evidente che esiste anche un giornalismo tossico, che nel nostro caso produce editoriali-scimmia come questo. Il problema è che quando non si sa affrontare – o non si vuole affrontare – un argomento che risulta politicamente rischioso per una parte dell’opinione pubblica, allora si devia, si glissa, si svicola, si occulta, si gira intorno alla questione senza affrontarla, evitando così di occuparsene, per sviare il lettore e orientarlo verso i temi più convenienti che si vogliono imporre.
Dunque, l’editoriale apparso sul supplemento “7” del Corriere della sera ha questo titolo: “Non abbiamo accolto il grido di libertà di Saman. Ferocia? No, fragilità”. Già qui si dichiara di voler parlare della tragedia di questa ragazza e di volerne affrontare i perché, di volersi interrogare sulla sofferenza della sua ribellione e sulla sua vita stroncata per mano della famiglia in nome di un patriarcato brutale e feroce, creatore di inferni. Ma invece è successo qualcosa di diverso: il supplemento del Corsera e Roberto Saviano hanno voluto tralasciare il lato oscuro delle famiglie immigrate pronte a uccidere le figlie che rifiutano di essere “buone musulmane”, per confezionare un editoriale-scimmia che inganna chi si ferma al titolo senza proseguire, facendogli credere che si stia parlando del dramma di Saman. Invece il testo, diviso in sette punti, fa di tutto per sviare l’attenzione: leggiamolo insieme, intestando ciascun punto con una frase riassuntiva.
1) Io, che mi metto coraggiosamente contro la politica, e le pene che devo patire
«Che immenso equivoco pensare che essere in disaccordo – in disaccordo palese, aperto, inequivocabile – con la politica ti migliori la vita. Non è così. Non porta vantaggi. Crea solo problemi, perché tutti temono chi è in politica; tutti sanno che prima o poi chiunque potrà ricoprire cariche importanti e, dalla vetta, magari guarderà in basso ricordando gli amici… e soprattutto i nemici».
Qui, come d’abitudine, Roberto Saviano inizia – e prosegue – parlando di sé e del suo dramma personale: le sue delusioni, l’essere eroicamente “in disaccordo palese, aperto, inequivocabile” con la politica, il lamento di avere dei nemici. Ma che c’entra questo con la giovane Saman e con il suo eroismo? Ha qualche attinenza con quello che le è successo? Ovviamente no, è la solita dose – tossica – di narcisismo infantile.
2) Io, che faccio lo scrittore, devo impegnarmi e lottare contro i politici che cercano i crimini commessi dagli immigrati
«Però, se di mestiere fai lo scrittore, non è che puoi trincerarti dietro le pagine dei tuoi libri. Non è che puoi dire: tutto quello che dovevo l’ho scritto lì, ora lasciatemi in pace. Non funziona così perché la realtà è complessa e dobbiamo tutti dare il nostro contributo, soprattutto quando ci sono politici che ogni giorno setacciano il web alla ricerca di notizie di crimini commessi da immigrati per poter dare in pasto, a chi li segue sulle loro piattaforme social, la disperazione che diventa crimine, vero o presunto, accertato o mera calunnia…».
E avanti così: Roberto Saviano continua ad autocelebrarsi. Non resiste proprio. E sembra chiaro dove vuol parare: il crimine dei genitori di Saman sta causando un monte di problemi agli immigrati musulmani, che rischiano di venire accusati di ogni nefandezza. Ma non si doveva parlare del dramma di Saman e darle voce? Non si doveva cercar di capire come possano accadere fatti così strazianti? Ma andiamo avanti, vediamo se ci si arriva.
3) Chi risarcirà gli immigrati – poveri e inermi – pubblicamente accusati di aver commesso crimini?
«Chi mai chiederà conto di quelle parole feroci? Difficile, molto difficile che chi vive con scarsi mezzi possa far valere le proprie ragioni, rivolgersi a un legale, intraprendere una causa per diffamazione. Ecco il “vantaggio” di fare a brandelli con chi non ha niente: non può difendersi, è inerme, totalmente esposto. Spesso leggiamo testi infarciti di condizionali: “avrebbe ferito”, “avrebbe brandito”, “avrebbe aggredito” insieme a foto, a nomi e cognomi. Nessun processo e nessuna condanna: il colpevole dato in pasto a chi crede di trovare una soluzione ai propri problemi coltivando l’odio razziale».
Niente da fare, sta succedendo ciò che temevamo. Di fronte a ragazze uccise perché non si comportano da “buone musulmane” e non si sottomettono al patriarcato feroce della famiglia, Roberto Saviano insiste sulla “diffamazione” che storie come questa provocherebbero agli immigrati: il copione preciso che avevamo immaginato. Una totale mancanza di visione, una totale assenza di pietas: Saman era sepolta chi sa dove, la sua gioventù stroncata e le sue carni erose, e lui si preoccupa di quelli che per colpa sua verrebbero diffamati. Non osiamo pensare cosa dirà costui se riuscirà a pronunciare il suo nome.
4) Il sacrificio rituale con lo sgozzamento pubblico dell’animale è una tradizione rispettabile, perché comunitaria e solidale
«La foto che ho scelto è stata scattata a Roma, in Largo Preneste, in occasione della Festa del Sacrificio, a cui partecipano musulmani di ogni età. Il sacrificio è quello dell’animale, sgozzato perché defluisca tutto il sangue, e tradizionalmente diviso in tre parti. Una viene consumata subito, una conservata e la terza donata a chi non ha la possibilità di acquistarne».
Questo quarto punto è davvero inquietante. Saviano non riesce ancora a guardare Saman e a pronunciare il suo nome: preferisce concentrarsi sul rito dello sgozzamento dell’animale come pratica tradizionale rispettabile, fatta da musulmani altruisti che donano un terzo della carne dissanguata “a chi non ha la possibilità di acquistarne”. Nemmeno un pensiero sul patriarcato che sgozza le figlie ribelli con la condiscendenza delle madri, un fenomeno talmente spaventoso da far seccare la gola.
5) La storia di disperazione e sofferenza degli immigrati viene respinta, perché troppo dura e potrebbe farci male
«Questa foto ci racconta dell’attitudine che molto spesso si ha con gli stranieri: si preferisce non vederli, una fitta rete ci separa da loro e rende i loro contorni sfumati, le loro abitudini lontane. Io mi sono dato una spiegazione che non ha niente a che vedere con la ferocia, e nemmeno con il razzismo, ma con una forma di egoismo che non ha nulla di sano. Lo straniero non ci fa paura perché temiamo possa usare violenza, derubarci o trovare lavoro al posto nostro. No, niente di tutto questo. Lo straniero lo temiamo perché abbiamo paura del suo dolore, della sua immensa sofferenza, che i suoi racconti possano spezzarci dentro. Sappiamo che non saremmo in grado di farcene carico e al contempo mantenere distanza. Quando entri nella vita di chi ha lasciato la propria terra, fai il tuo ingresso in un mondo che ha perso le proprie radici, un buco nero senza appigli, senza aiuto. Nessun parente sulla cui spalla poter piangere, nessun amico d’infanzia che possa venirti in soccorso o luogo familiare che possa darti sicurezza».
Neanche qui si parla Saman. L’autore non la vede e non la vuole vedere: la eclissa, la evita, la oscura con un paravento. Mette avanti la gonfia retorica della sofferenza e disperazione degli immigrati la cui storia ci spezzerebbe, e sarebbe questo il motivo per cui li si tiene a distanza. Nessun’altra possibilità è contemplata.
6) Noi italiani siamo feroci, creiamo un muro, non facciamo comunità con gli immigrati e non li aiutiamo
«Ecco, quel velo non ci protegge dal timore di essere depredati, ma da una sofferenza a cui non vogliamo partecipare. E allora si cede al racconto facile: sono criminali, ecco perché ne sto alla larga, ecco perché non devono venire e chi sta qua se ne deve andare. Meglio mostrarsi feroci che fragili. E così quella rete diventa un muro, un muro alto, impossibile da valicare. Così viviamo negli stessi luoghi e non ci conosciamo, osserviamo lo stesso cielo ma non insieme. Potremmo dare aiuto, ma nemmeno ci accorgiamo di chi ne ha bisogno».
Ormai l’abbiamo capito, a Roberto Saviano la storia di questa ragazza non interessa. Nemmeno qui l’ha pensata, non l’ha nemmeno sfiorata con un’idea o una domanda. Allora lo chiediamo noi: Saman, hai sofferto quando ti hanno trucidata? Hai lottato? Cosa ti ha spinto a fidarti di tua madre, quando ti ha implorata di rientrare a casa, mentendoti? E che cosa spaventosa può essere stata, per una madre, mandarti a morte? È stata la sottomissione totale a renderla disumana? Con quale animo continuerà a vivere? E quante ragazze come te rischiano la vita, in famiglie intrise di estremismo religioso e criminale?
7) Non abbiamo salvato Saman, non l’abbiamo integrata, quindi la sua morte è colpa nostra e dei nemici politici che quotidianamente combatto
«Non ci siamo accorti di Saman Abbas, non l’abbiamo aiutata a emanciparsi dalla sua famiglia. Tra noi e Saman, vittima di femminicidio, c’era una fitta rete, come quella della foto. Saman voleva essere libera di decidere della propria vita, glielo hanno impedito e nessuno di noi è stato lì ad accogliere il suo grido d’aiuto. Ciò che è accaduto a Saman ci dice che dobbiamo costruire ponti, lavorare perché gli stranieri che decidono di stabilirsi in Italia trovino possibilità di integrazione: la politica che criminalizza quotidianamente gli immigrati rema contro tutto questo, e la consapevolezza che la storia di Saman abbia trovato spazio sulle pagine social di Giorgia Meloni e Matteo Salvini solo perché è morta per mano di parenti stranieri è sconfortante».
Ecco il gran finale: solo ora Saviano permette alla giovane Saman di entrare in scena, ma come puro strumento, per poterci accusare di non averla salvata perché “non l’abbiamo integrata”, e per additare con nome e cognome gli avversari politici su cui è fissato, la grande ossessione che lo tormenta. Ma il problema è che Saman si stava integrando e veniva aiutata, mentre è quel tipo di famiglie che rifiuta di farsi integrare, a costo di uccidere le proprie figlie. Un fatto chiarissimo, che un giornale come il Corriere della Sera arriva a negare attraverso questa operazione personalistica e disonesta, la solita rivendicazione permanente di un iper-narcisista che non vede la realtà, capace di sfruttare una ragazza assassinata senza nemmeno concederle un briciolo d’anima. Ed è veramente disgustoso. Dunque, diciamolo ai due conduttori millennial che in radio hanno la spudoratezza di mettere in dubbio l’esistenza del politicamente corretto: ciò che vediamo qui ne è la versione più feroce, quella coi denti aguzzi, capace di divorare un essere umano “tutto, ossa, vestiti, scarpe, denti, persino la carta di identità”, come fanno i donghi citati nel famoso racconto di Juan Rodolfo Wilcock. Uno sfacciato editoriale-scimmia servito solo per sostenere le proprie tesi politiche, senza far comparire la ragazza perché scomoda, come se fosse un accidente che può minare la narrazione di Roberto Saviano e dei suoi mandanti. Per noi, invece, Saman è piena di coraggio come poche: così piccola, in una famiglia così difficile e pericolosa, in un ambiente tanto infido e malvagio a cui ha avuto il coraggio di ribellarsi. Pagandolo carissimo. Noi non eclissiamo Saman, al contrario la terremo sempre con noi, come dovrebbero fare tutti.