L’esordio su Repubblica con un pezzo contro il politicamente corretto del sociologo Luca Ricolfi, in precedenza già accusato di intelligenza col nemico, ha creato un cortocircuito tra i (presunti) intellettuali di area.
Nel suo articolo (più che altro un’articolessa, come si dice in gergo quando si parla di scritti lunghi e non particolarmente dinamici: sì, anche il gergo è sessista), Ricolfi non dice nulla di nuovo per chiunque segua il tema della libertà di espressione, ma scrive cose in cui probabilmente i lettori di Repubblica non si sono mai imbattuti, in quanto si tratta di cose che i benpensanti di sinistra ritengono essere non di sinistra e che dunque nascondono o sminuiscono.
Un giorno qualcuno dovrà spiegare quando e perché la libertà di pensiero e di espressione e il buon senso siano diventatati non di sinistra e anzi nemici della sinistra. Anzi, lo spiega direttamente Ricolfi nell’attacco del suo pezzo: “Quando, esattamente, sia nato il «politicamente corretto» nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio. Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio. […] Fu così che venne bandita la parola «negro» (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare. In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse”.
Ma quello è stato solo l’inizio, perché, come spiega Ricolfi, poi si è arrivati all’era della suscettibilità sui social (“Oggi, se navighi su Internet o stai sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso”) e alla dottrina del “misgendering”, cioè “chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera. Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l’asterisco * (cari collegh*), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (?) (benvenut? in Italia) per essere più «inclusivi». La nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci”.
Il sociologo parla poi di cancel culture (“secondo cui tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno”) e stigmatizza la “discriminazione nei confronti dei non allineati” e le derive della politica identitaria (“un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera”) che contraddicono gli ideali di Martin Luther King (“che pensava che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti”) e dello stesso Barack Obama: “sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l’eguaglianza attraverso le discriminazioni”.
Impossibilitati a replicare nel merito, visto che la ricostruzione di Ricolfi è incontestabile da parte di chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale, i vari prevedibili alfieri (e le prevedibili alfieresse) del politicamente corretto hanno snocciolato gli ancora più prevedibili tic, riassumibili in “Ricolfi è un maschio bianco eterosessuale”. Grazie al cazzo, letteralmente. Peraltro si tratta di attacchi che non fanno che confermare la tesi del sociologo. Benpensanti e indignati di professione, comunisti col Rolex e femministe con la schwastica, mettetevela via: ha ragione lui, le cose stanno così, e lo sapete anche voi. Chissà se un giorno avrete il coraggio di ammetterlo.