Qual è uno dei pochi rifugi del cinema d’autore? L’horror, un genere spesso incompreso ma che racchiude delle energie creative notevoli. Lo dimostrano i casi di Ari Aster negli Usa e Luca Guadagnino in Italia. Senza dimenticare i grandi del passato: Dario Argento e Pupi Avati su tutti. E proprio da questi ultimi sembra aver preso ispirazione il frontman dei Tiromancino e regista, Federico Zampaglione, per The Well, in cui recita anche Claudia Gerini: “In generale c'è una mentalità che considera il cinema di genere di serie b. Purtroppo è una mentalità molto ignorante di vecchia provenienza”. Il rischio del regista, però, sembra aver pagato, dato il buon successo in sala e l’inizio della vita del film fuori dall’Italia (sarà infatti in 104 paesi). Zampaglione ha deciso, in un momento difficile, di fare un film indipendente (“Ci sono meccanismi che sembrano creati apposta per impedire a tutto un certo tipo di cinema di poter continuare a vivere”), e di farlo uscire in un periodo altrettanto complicato come agosto. Alcune riflessioni, poi, sulla riforma del tax credit, che rischia di danneggiare ulteriormente proprio gli indipendenti: “È come Robin Hood ma al contrario. Spero che il governo ci rifletta bene”. Alcuni autori, comunque, sono riusciti a emergere, su tutti Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, ma solo dopo che essersi “costruiti una cifra stilistica”. Infine, un parere sul pop di oggi, alla ricerca della “hit a tutti i costi”, e i fraintendimenti su rap, trap e autorialità.
Federico Zampaglione, in The Well, nonostante ovviamente i riferimenti cinematografici siano chiari, c'è qualcosa più di tuo. Sei d'accordo?
Sicuramente quello di The Well è il tipo di cinema che io amo di più, l’horror, il mio preferito in assoluto. E lo è da sempre, anche da quando ero solo uno spettatore. È chiaro che quando mi trovo ad avere a che fare con questo tipo di materia mi sento molto più a casa. The Well è sicuramente il mio film più libero, definiamolo così. Ho avuto la possibilità anche di spingere molto sull'acceleratore con tutta una serie di scene molto gore, quasi ai limiti dell'estremo.
Agli appassionati è piaciuto.
Sì, molto. Penso che la cosa peggiore sia fare un'opera che passa inosservata. Dopo The Well invece ci sono state reazioni forti.
Come mai secondo te l’horror in Italia fa fatica, nonostante i grandi nomi che l’hanno frequentato? Pensiamo a Pupi Avati, Dario Argento o, più di recente, Luca Guadagnino.
Questo è un problema che nasce anche dal passato. Mario Bava è stato osannato in tutto il mondo, ma in Italia non ne senti mai parlare. Abbiamo avuto dei registi che hanno fatto la storia, però poi negli annali di un certo tipo di cinema tra virgolette di qualità non li vedi mai menzionati. Puoi trovare Dario Argento qualche volta, ma in generale c'è una mentalità che considera il cinema di genere di serie b. Purtroppo è una mentalità molto ignorante di vecchia provenienza. Questo genere però non ha attecchito su quell'élite, su quell'establishment pseudo-culturale che si è sempre tenuto su un altro tipo di film, non riconoscendo mai la genialità e la forza eversiva dell’horror.
Quali sono le ragioni di tutto ciò?
In Italia abbiamo avuto grandi autori di commedie che prima di vedersi riconosciuto un minimo di merito ci hanno messo una vita. È una questione di ignoranza e, soprattutto, che è la cosa peggiore, di chiusura mentale, di incapacità di vedere meriti laddove il proprio gusto non arriva.
È anche questa arroganza che svuota i cinema?
Sì, perché alla fine si deve pensare un po' a tutto il pubblico, anche a chi ama altre cose. Comunque io non mi posso lamentare in questo senso, perché malgrado abbiano stabilito un divieto ai minori di 18 anni, che comunque taglia una grossa fetta di pubblico, e uno spettacolo al giorno, spesso la sera, il film è comunque stato sempre in top ten.
Poi ad agosto, notoriamente un periodo difficile.
Uscirà i primi di settembre in piattaforma e lì potrà essere visto da tutti. Al cinema ha fatto una buona performance, anche un po' inaspettata.
Ora The Well proseguirà la sua vita all’estero.
Sarà in 104 paesi. Ecco, questo è un altro tema poi di cui bisognerebbe un attimo parlare, cioè l'esportabilità di un certo tipo di cinema.
Dicci pure.
Questi sono film che hanno un mercato mondiale, di questa cosa non si parla mai. I film di Argento o di Bava sono andati in giro per tutto il mondo e tuttora vengono riproposti. Sono opere che hanno una visibilità che va oltre l’Italia. Ma questo è un Paese strano, un Paese che si muove in maniera diversa dal resto del mondo. È un Paese che fa fatica a raggiungere un'apertura, un livello che possa essere al pari degli altri. Ci sono dei grossi limiti culturali. Guardiamo cosa sta succedendo alla musica oggi: una specie di carnevale alla ricerca solo dei tormentoni, ragazzini neanche ventenni presi, macellati e buttati via dopo un anno. Per me questo è un atteggiamento disastroso per gli artisti.
Per te è stato diverso?
Sia con la musica che con il cinema ho effettivamente il mio spazio, ma me lo sono comunque conquistato, cercando sempre di non accettare compromessi. Non ho mai seguito quello che mi è stato detto di fare. Questa forse è stata la mia fortuna più grande. Ho mandato a quel paese le persone che non mi volevano far esprimere a modo mio.
Sempre parlando di respiro internazionale: il tuo film è in inglese, ma in Italia si parla spesso della questione del doppiaggio.
Il film è stato pensato come un prodotto internazionale, tanto è vero che la protagonista, Lauren LaVera, è l'attrice di Terrifier. Solo così questo cinema può avere senso. Poi è chiaro che in Italia viene doppiato, altrimenti sarebbe uscito in pochissime sale. Però non voglio passare come il “salvatore” del cinema di genere. Questa è una cosa che mi hanno sempre addossato. Ognuno fa i film che vuole, io non devo rappresentare la rinascita di niente.
Il tuo film è stato vietato ai minori di 18 anni ma voi non avete neanche fatto nemmeno ricorso: come mai?
The Well si regge su equilibri estremi, fare diversamente non era possibile. Poi tutti gli altri film horror americani, anche molto sanguinolenti, ottengono il “vietato ai minori di 14”. Il paradosso è che non puoi dare il “+18” a un film che esce per una major, ma non vedi l'ora che arrivi un film italiano per dargli la penalizzazione. Io mi sono sentito dire che se avessi voluto farlo uscire per i maggiori di quattordici anni avrei dovuto tagliare un quarto d'ora di film: ho detto di no, l’ho mandato in sala così com'è.
Non tutti hanno la forza di rimanere indipendenti.
In generale arrivano voci terrorizzanti per quello che riguarda questo settore. Anche perché un regista indipendente non può dare le stesse garanzie di una produzione americana. È come se io dicessi a un ragazzo cantautore che al primo disco deve garantire un tour nei palazzetti sold out in prevendita e che se non porta un risultato non gli si fa fare il disco. In pratica non gli vuoi far fare più niente, hai trovato un escamotage formale per dire sostanzialmente che non vuoi far più esistere certe cose. Sembra una cosa fatta per impedire a un tipo di cinema di poter continuare a vivere. Spero che la riforma del tax credit prevista non venga approvata così com’è (la riforma, secondo molti, renderebbe molto difficile l’accesso ai contributi per i produttori indipendenti, ndr). Ci devono pensare bene perché è una condanna a morte per il cinema indipendente, con tutto quello che la cosa comporta: famiglie che non lavorano più, produzioni che non possono più partire. Cioè una specie di Robin Hood al contrario: rubo ai poveri per dare ai ricchi.
Gli indipendenti non possono dare quel tipo di garanzie che saranno richieste?
Come fai tu a garantire che gli esercenti faranno quel tipo di distribuzione in così tante sale per così tante proiezioni? Quello lo puoi garantire solo se hai un film che parte da presupposti molto alti. Quindi io mi auguro con tutto il cuore che quella proposta che è circolata poi non venga fuori in quel modo, ma che ci sia da parte del governo una riflessione su quello che potrebbe realmente comportare una legge simile.
Noi abbiamo intervistato anche Paolo Del Brocco di Rai Cinema e si è parlato delle necessità commerciali degli esercenti e di come sia difficile conciliarle con la volontà di far rimanere in sala certi film: tu cosa ne pensi?
Gli esercenti fanno il loro mestiere e ovviamente si devono basare anche un po' su quello che succede nelle sale. Se a vedere un film non ci va a nessuno dopo un po' lo tolgono dalla programmazione. Spesso viene meno anche la pubblicità. Io ho avuto la fortuna che il film ha attirato molto l'attenzione del mondo del web, degli appassionati. Questo in qualche modo ha pubblicizzato il film, gli ha dato una visibilità e l'ha reso più interessante anche per le sale. Comunque, ripeto, è un momento molto complicato. È un momento in cui si rischia di appoggiarsi completamente sul cinema americano o sui grandi titoli italiani appetibili da un punto di vista commerciale.
Queste difficoltà sono ancora maggiori nella musica?
Il mondo indipendente serve a potersi esprimere liberamente e a creare una propria cifra stilistica. Cioè se tu hai in mente di fare un disco o un film e vuoi imporre il tuo stile, è difficile che con una major tu possa realmente essere te stesso, perché ci sono delle pressioni che arrivano da una serie di regole che ti vengono imposte. L'industria si regge sull'inseguimento del pubblico, si concentra solo sul risultato, mentre invece l'artista e deve fare una cosa in cui crede veramente. Poi l’apprezzamento del pubblico è il più grande dono che si possa avere come artisti, ma deve essere una cosa spontanea. Molti autori ci sono riusciti.
Facci degli esempi.
Matteo Garrone ha iniziato con dei film super indipendenti e adesso è diventato una star della regia, la gente a scatola chiusa va a vedere il film. Non è diventato così in un battito d’ali, è stato fatto un percorso. Stessa cosa vale per Paolo Sorrentino. Sono arrivati a quel livello grazie a un percorso indipendente reale, non attraverso un'operazione a tavolino. L'industria è arrivata solo dopo, quando questi autori avevano già sviluppato una cifra stilistica, trovato qualcuno che li seguisse.
Come si rende un pubblico realmente affezionato?
Il pubblico ha una certa sensibilità, gli arrivano anche la purezza e l’integrità di qualcosa. Quando stai facendo la furbata e vuoi a tutti i costi il riconoscimento le persone se ne accorgono. L'artista non deve essere mai concentrato su quello che deve avere, ma sempre e solo su quello che può dare. Quando è uscito The Well non mi aspettavo nulla. Poi è arrivato un riscontro importante del pubblico ed è andato bene anche in sala. Il mio è un film che non fai se ti vuoi tenere buoni tutti, soprattutto se sei un cantante percepito come romantico e intimistico.
Chiudiamo con la musica: non credi che ci sia una contraddizione tra un certo stile rap, che nasce dalla strada e da energie che vanno contro il sistema, e la ricerca dei numeri in chiave pop?
In realtà il rap, la trap e il pop sono cose molto diverse. Il rap, la trap e l'hip hop si rivolgono a un pubblico ben preciso e quindi parlano un linguaggio molto diretto, esplicito. Ci sono interpreti all'interno di questo scenario che sono dei veri e propri autori, che ci credono, che fanno dischi con contenuti, con stile. Quello che io proprio non digerisco, ma per una questione di gusto personale, è invece il pop che cerca in ogni modo il tormentone. Invece nel mondo del rap ci sono persone che tengono conto di ogni singola parola che stanno dicendo.
TI riferisci a qualcuno in particolare?
Se prendiamo un artista come Marracash lo possiamo equiparare a un grande cantautore, che va alla ricerca del verso, della sfumatura. Quello che a me non piace invece è questo tentativo della hit a tutti i costi, quando la musica smette di essere racconto. Il pop di nuova generazione spesso è solo intrattenimento, è tentativo di acchiappare il ritornello giusto, ma non c'è nessuna volontà di fare qualcosa di artistico.