Una storia tratta dalle parole di chi il viaggio lo ha compiuto davvero. L’odissea di due giovani ragazzi senegalesi raccontata nella loro lingua, il wolof, ma anche in francese e in inglese. Perché le nazioni attraversate sono tante, così come le città: Dakar, Agadez, Tripoli. Tra di loro, il deserto. Una lunga marcia verso il mare, quella dei protagonisti. Diretti sulle coste che si affacciano su quel tratto blu, largo una manciata di chilometri, che divide la Libia dalle coste italiane. Un luogo di morte per tanti. Per altri, sinonimo di speranza. In Io Capitano di Matteo Garrone i due adolescenti senegalesi, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), fanno parte di questo secondo gruppo. Un sentimento, quello dei due ragazzi, che si tramuta nel ferro arrugginito dell’imbarcazione che li deve trasportare in Italia. La barca di cui Seydou è il capitano. Il loro sogno è diventare musicisti e far firmare autografi a quei bianchi indecisi fino all’ultimo se venire salvarli o meno. Dell’Occidente, infatti, sentiamo solo una voce che parla attraverso un vecchio telefono: “Le acque in cui state navigando non sono di competenza dello Stato italiano.” Neanche Malta vuole prendersi la responsabilità del salvataggio. Solo quando la costa della Sicilia è ben visibile l’elicottero della guardia costiera arriva in soccorso. Fino a quel momento, dall’Italia non si era sentito neanche un sospiro. Nel corso delle nostre giornate, quando leggiamo le notizie sull’ennesima tragedia e la consueta statistica da aggiornare sui morti, vediamo il film di Garrone. Lo vediamo, però, partendo dal suo epilogo. Per noi quelle vite assumono una forma solo quando il loro percorso giunge all’ultima tappa. A quel punto risaliamo, come seguendo il corso di un fiume, fino ai luoghi da cui provengono. Ma solo dopo averli visti in mare. “Dei disperati”, “morti di fame”, “criminali”: definizioni vuote e inutili, che cancellano tutto ciò che si sono lasciati alle spalle.
La sorellina di Seydou, la casa con il tetto instabile e il pubblico di amici che faceva eco ai due protagonisti durante i loro concerti improvvisati. Tutto irrilevante rispetto al momento della traversata, sintesi superficiale di un percorso più lungo in cui (e non è retorica ma è la verità) c’è ancora chi si sforza di muovere una mano per tirare su il prossimo. Come il muratore che aiuta Seydou a uscire dalla prigione libica e con cui costruirà una fontana per un ricco uomo libico, guadagnandosi il “diritto” di partire. Braccia che si incrociano quasi per caso. Il residuo di un’umanità che rischia di disperdersi al sole del deserto. Ogni giorno vediamo Io Capitano. Garrone ha avuto il coraggio di ribaltare il punto di vista. In un’intervista all’Ansa, il regista romano ha spiegato: “Volevo mostrare tutta la parte del viaggio dei migranti che di solito non si conosce, non si vede, cambiare l'angolazione, una sorta di controcampo, puntata dall'Africa verso l'Europa e raccontare in soggettiva l'esperienza di questi giovani con tutti i vari stati d'animo, gioia e disperazione.” La soggettiva con cui inquadriamo quelle storie cessa di essere la nostra. Non dei disperati ma ragazzi che vanno a scuola e che hanno lavorato per sei mesi per guadagnarsi i soldi necessari a partire. Lontani dal vivere nel lusso ma, come dice Moussa: “Qui in Senegal io mangio e bevo”. Con addosso le magliette del Barcellona e del Real Madrid. Allora perché partire? Per le stesse ragioni che portano noi che abitiamo questa parte di mondo a partire. Per curiosità, spinti dalla voglia di trovare qualcosa di diverso. È il tratto di strada che ci porta a destinazione che è diverso. L’impugnatura del fucile sulla faccia e i soldi infilati nel culo per evitare che una polizia corrotta li trovi: questo è ciò che fa la differenza.
12 minuti di applausi. Ci siamo rovinati le mani per esaltare il film di Garrone. Io Capitano forse non vincerà il Leone d’oro, pur essendo in corsa. Se la nostra previsione risulterà esatta, si dirà che non poteva vincere: sarebbe stato troppo facile. Una vittoria automatica vista la delicatezza del tema. Del resto, il film non è un capolavoro di virtuosismo del regista. Le immagini che spiccano dal punto di vista estetico non sono molte. Prevale la linearità della narrazione, la pulizia dello svolgimento. L’artista dietro la cinepresa si lascia pochi momenti per emergere. C’è il momento in cui la donna sfiancata da giorni di cammino nel deserto prende il volo per seguire Seydou. Oppure quando il vecchio stregone di Dakar appare in sogno al ragazzo in compagnia di un angelo: tornano indietro volando da sua madre e le sussurrano nel sonno che Seydou è vivo, che nonostante tutto sta bene. L’illusione di volare è forse l’immagine a cui il regista ha dedicato maggiore potenza simbolica. Per il resto, la vicenda si racconta quasi da sola. Come se chi ha ideato la pellicola volesse fare un passo indietro. Alla redazione della sceneggiatura hanno contribuito Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri: ma da inventare c’era ben poco. La realtà aveva già tutto. E allora cosa ci dicono quegli applausi? Sono forse l’ammissione dell’incapacità di fare di più? Vogliamo forse coprire le nostre responsabilità con il rumore delle mani che battono? Chissà se dopo aver visto Io Capitano succederà qualcosa. Un cambiamento nel dibattito, una scossa. Un maggiore risalto alle vite e non alle morti di quelle persone. Rivolgendo lo sguardo al vicino ci accorgeremo dell’imbarazzo sul suo volto, lo stesso che qualcun altro potrebbe vedere sul nostro. La fastidiosa sensazione di sentirsi la causa di quell’olio bollente sul petto dei prigionieri, di quelle articolazioni che tremano mentre le gambe e le braccia sono appese al soffitto di un carcere libico. Applaudiamo ma vorremmo che questo gesto ci rendesse le mani più pulite. Gli applausi nervosi di chi sa di essere coinvolto.