In ogni paese di provincia veniamo inquadrati in base al nostro cognome. È facile essere scambiati per qualcun’altro solo perché condivide con noi parte del codice genetico. Prima di essere noi stessi, siamo “i figli di”. Funziona così anche a Hollywood. Anzi, forse in California questo fenomeno è ancora più acuto. Specialmente se sei la figlia di Francis Ford Coppola, il regista di film enormi come Il Padrino e Apocalypse Now. Un monolite, la stella polare per molti nuovi registi. Quella di Sofia Coppola, però, non è stata una lotta contro l’ingombrante figura del padre. La stima nei suoi confronti era troppa per sentire il peso della sua eredità. La semplicità con cui ha deciso di far parte dei film de Il Padrino lo dimostra: stava studiando arte e un’esperienza del genere avrebbe solo potuto essere d’aiuto. La reazione di pubblico e critica era un aspetto secondario. La capacità di fregarsene, però, se non è sostenuta dal talento, rischia di essere un atteggiamento unicamente distruttivo. Non è questo il caso di Sofia Coppola. È stata la prima donna americana nominata come miglior regista agli Oscar e a vincere il Leone d’oro a Venezia, rispettivamente per Lost in Translation e Somewhere. Nel 2017 a Cannes arriva un’ulteriore conferma: anche in questo caso, prima donna americana (seconda donna in assoluto) a vincere il premio per la regia con L’inganno. Quest’anno è di nuovo in concorso al Festival di Venezia con Priscilla, la storia di Priscilla Presley, tratta dal libro Elvis and Me. Una risposta femminile a Elvis di Baz Luhrmann, candidato a ben otto premi Oscar ma incapace di portare a casa nessuna statuetta. Cailee Spaeny sarà Priscilla nel film di Coppola, mentre il ruolo di Elvis è affidato a Jacob Elordi, una delle star in ascesa dopo il successo di Euphoria. La storia di una donna offuscata dal marito, quella di Priscilla Presley, ma scritta e diretta da una donna che ha cercato la propria luce e l’ha trovata. Un tentativo di ridare dignità a una storia solo apparentemente secondaria.
Al centro dei film di Coppola ci sono sempre le donne. È così fin dai tempi de Il giardino delle vergini suicide, dove collabora per la prima volta con Kirsten Dunst. Donne che non fanno gli uomini e che cercano la propria individualità. Che si vestono di rosa e non hanno bisogno di abiti maschili per avere successo. Un tema che Barbie di Greta Gerwig ha riportato in primo piano. Solo che Coppola l’aveva già capito nel 2006, quando vestì la “sua” Maria Antonietta (impersonata proprio da Kirsten Dunst) di tutte le tonalità di rosa possibili. Una regina rock, elegante ma con le Converse, inserite nel turbinio di dolci, parrucche e vestiti su misura che scandiscono il ritmo del film. Maria Antonietta, come Coppola, alla ricerca del proprio stile ma incapace di lasciare che siano gli altri a scegliere per lei. Perché delegare qualcosa quando lo si può fare da soli? Ha descritto gli adolescenti ossessionati delle star di Hollywood in The Bling Ring, l’amore di una coppia silenziosa in Lost in Translation e ora ha portato sul grande schermo la storia rumorosa di Priscilla Presley. Spesso è stata accusata di affrontare tematiche frivole, raccontate attraverso donne superficiali e attente solo all’outfit. La moda, però, è per lei un segno di qualcosa di più profondo: espressione di sé, lotta contro i benpensanti. Il proprio corpo e il proprio guardaroba come luoghi di rivendicazione delle differenze, contro l’omologazione.
Anche quando Sofia Coppola si cimenta con realtà diverse da quella del cinema i risultati non faticano ad arrivare: nel 2017 fu chiamata a dirigere La traviata di Giuseppe Verdi al Teatro dell’Opera di Roma. Una sfida irrinunciabile che la vide affiancata da Valentino nell’ideazione dei costumi di scena. Lo spettacolo doveva far convergere l’interesse degli amanti “storici” dell’opera e quello dei profani. L’esito dell’operazione: biglietti che venivano venduti per più di un milione di euro e tutte le quindici repliche previste andate in sold out prima ancora della serata di apertura. In poche parole, il più grande risultato al box office nella storia del Teatro di Roma dal 1880. Nel frattempo, è entrata a far parte del board di Gagosian, galleria d’arte contemporanea tra le più prestigiose al mondo, e ha pubblicato il suo primo libro, Sofia Coppola Archive: 1999-2023, un collage di immagini e momenti della sua carriera da regista. Uscito in tiratura limitata il primo settembre, a Vogue lo ha descritto come un assemblaggio di tutte quelle cose che sono sulla sua scrivania. Un caos ordinato, catalogato attraverso la sua memoria. Chissà che quest’anno non faccia il bis a Venezia, vincendo il suo secondo Leone d’oro. Non serve ricordare che sarebbe la prima donna a farlo. A 52 anni Sofia Coppola è nel pieno della sua maturità artistica. Sarebbe un sogno vederla, perché no, dirigere un’altra figlia d’arte che ha saputo far riconoscere se stessa e non il proprio cognome: Charlotte Gainsbourg. La loro carriera sarà ancora lunga e un connubio tra le loro sensibilità e il loro stile potrebbe dar vita a qualcosa di veramente unico, di mai visto. Due donne nate nell’arte e diventate icone per il loro talento e la capacità di sdoppiarsi nelle varie specialità. Speriamo che qualcuno consigli un simile progetto a Sofia Coppola. Nel frattempo, godiamoci Priscilla, l’ennesimo film di un’artista consapevole di non essere più “la figlia di”: orfana per scelta alla ricerca dell’estetico.