Sarà perché nonostante da tempo Milano si racconti come l’unica città europea d’Italia, quella coi calzini arcobaleno del sindaco Beppe Sala che guarda al futuro, un futuro ovviamente in bilico tra attitudine green e grattacieli lanciati a toccare, appunto, il cielo, il capoluogo lombardo resta fortemente ancorato a un passato di migrazioni interne, i famosi meridionali qui chiamati "terroni" che venivano su a mandare avanti il motore economico della nazione, sapere che arrivando in treno non si traccia una linea retta che da sud va verso nord per me è sempre stato straniante. Intendiamoci, non che pensassi che le ferrovie si fossero fatte largo tra i quartieri, scansando palazzi, scuole, parchi o strade, ma capire che il giro che i treni facevano era come una manovra di accerchiamento, da sud verso est, Rogoredo che lascia il posto a Lambrate, per poi spostarsi verso il centro, a ovest, quindi, mi è sempre parso bizzarro, quanto illogico. E dire che per capirlo ci ho messo tempo, vivo in fondo qui solo da ventisei anni, perché la pianta di Milano è strana, a ragnatela, concentrica, alla faccia delle piante squadrate di epoca romana. Di fatto, però, poi a un certo punto si arriva alla Stazione Centrale, mastodonte di chiara matrice fascista, lì a un passo dal centro, e da lì si parte per la scoperta della metropoli, o si parte per lasciarsela alle spalle, magari anche per sempre.
Altra cosa che mi ha sempre colpito, parlo del sempre di quando arrivavo in città in treno, è il fatto che la Stazione Centrale preveda i binari al primo piano, come per Roma Termini anche Stazione Centrale prevede che i treni si fermino qui, cioè sollevati di una buona quantità di metri da terra. Il tutto in una città fondamentalmente piatta, piattissima, senza prospettive, senza colline, senza salite, e quindi senza discese, perfetta metafora, l’assenza di discese più che di salite, di quello che chi poi si trasferisce a vivere qui dovrà affrontare. Questa faccenda della mancanza di prospettive, perché a Milano, in strada, non si vede quasi mai l’orizzonte, è una cosa che a sua volta mi ha spiazzato, nei miei primi giorni milanesi, io che arrivavo da una città fatta appunta di colli. Qui, a parte il Ponte della Ghisolfa raccontato assai meglio di me da Testori, la sola parte rialzata è appunto quella relativa ai binari dei treni, fatta ovvia eccezione per i palazzi, i grattacieli dell’Isola e di City Life a ridisegnare negli ultimi tempi lo skyline. Si arriva e si scende, questa di metafora lascio a voi a decodificarla. Anzi, si arriva, si superano i tornelli, ci si guarda intorno, spersi tra i mille negozi, i bar, i ristoranti, poi si scende, a destra diretti verso la zona di Corso Buenos Aires, al centro verso la piazza antistante la stazione, quella che ci fa vedere i mascheroni, a destra verso l’area da poco ripristinata del market, questa fissa di inseguire Londra che è un chiodo piantato nel cervello di Sala e dei vari amministratori che l’hanno preceduto.
Una volta, davanti ai binari, che non erano tenuti a distanza da nessun divisorio, gli attentati erano roba di cui si sentiva parlare al telegiornale o che non sembravano dover riguardare Milano, almeno non la stazione di Milano, c’era una povertà di proposte abbastanza imbarazzante. Certo, c’era il famoso Museo delle Cere, noto posto di ritrovo per chi cercava un amore in città non ancora sdoganato come ora, ma quando io sono arrivato era ormai chiuso da tempo, rimasto vivo nei ricordi degli amici che lo avevano forse frequentato, benché tutti negassero, o ne avevano comunque sentito dire dalla viva voce di qualche conoscente. Oggi ci sono, lo dice anche Aldo Cazzullo, il cui racconto di una giornata in stazione è apparsa recentemente sulle pagine del Corriere, speculare a quello passato in autogrill un annetto fa. A Cazzullo piace attraversare quelli che il da poco compianto Marc Augé chiamava non-luoghi, per andare a non-raccontare la non-Italia, un po’ tutti i marchi che uno si aspetta di trovare in una città come Milano, anche se quelli che si aspetta di trovarci uno sceicco o un tempo un russo forse è meglio andarseli a trovare a casa madre, dalle parti del Quadrilatero, condito di locali che si spacciano per alla mano, penso proprio al bistrot citato da Cazzullo stesso, ma che di alla mano hanno ben poco, con prezzi da passamontagna e la stessa area relax che potrebbe vantare la centrifuga di una lavatrice dentro la quale si sono infilati incautamente pantaloni con le tasche piene di monete, via vai di gente chiacchierante, piccioni entrati dentro questo dedalo e ovviamente impossibilitati a uscirne, gente che cerca disperatamente una presa per caricare il telefonino o il computer, qualcuno che azzarda anche a mangiare qualcosa, lasciando sul banco il corrispettivo di anticipo per un monolocale in zona centrale, ancora qualcuno che chiede spicci per comprare un biglietto inesistente.
Cosa che mi ha sempre colpito, qui al primo piano della Stazione Centrale, e che constato non è cambiato nonostante, immagino, in tanti lo abbiano fatto notare agli omini che stazionano di fronte ai plexiglas che dividono i binari dal resto del mondo, unico contatto plausibile col mondo delle ferrovie per chi arriva qui e non deve partire, è l’assenza inspiegabile dei cartelloni che indichino gli orari degli arrivi e i relativi binari. Ci sono questi giganteschi videowall che indicano le partenze, certo, sia fuori che dentro, ma fuori dai tornelli, chiamiamoli così anche se tornelli non sono, ci sono solo i videowall con le partenze. Immagino che questo dipenda dalla logica stringente, tipica di chi si sente molto più milanese degli altri, che vuole chi si avvicini a detti tornelli sul punto di partire, quindi interessati solo alla voce “partenze”, peccato che però chi sta fuori sia nella stragrande maggioranza dei casi qui in attesa di un arrivo. Toh, nella stragrande maggioranza dei casi magari no, vedo che c’è parecchia gente buttata sulle poche sedute con valige e zaini appresso, al punto che parecchi se ne stanno anche seduti se non addirittura stesi in terra, ma altri aspettano e aspettano senza sapere se chi stanno aspettando sia in orario o in ritardo, a occhi, trattandosi di treni saranno in ritardo, né da che parte della mastodontica stazione usciranno, perché di tornelli dedicati all’uscita ce ne sono due, uno a destra uno a sinistra, così come per l’ingresso. Che la Stazione Centrale di Milano sia appunto centrale, stando al via vai di gente in partenza o in arrivo, anche alle prime ore del giorno, è comunque evidente, come lo è il fatto che il treno rimanga sempre un mezzo per spostarsi molto popolare, nonostante i prezzi assai poco popolari. Una volta scesi, già che ci sono continuo con questo mio muovermi a ritroso, come un Huysmann fuori tempo massimo, il primo problema che il viaggiatore si troverà di fronte, a parte capire dove prendere un caffè senza salassarsi, è come diavolo scendere da quassù. Perché se si è valigia-muniti, e quasi tutti quelli che arrivano perché viaggiatori, quindi non i pendolari o quelli in città per un giorno, una valigia ce l’hanno, scendere la grande scalinata che si trova proprio di fronte ai binari è impresa ostica, a tratti anche epica. Ci sono infatti delle discese facilitate, quella forma moderna di scala mobile che non è sotto forma di scala, ma di rullo sul quale puoi stare fermo, procedendo come un bradipo ferito, o provare a camminare, aiutato, operazione impedita quasi sempre dai tanti che stanno fermi e che ti intralciano il cammino. Piccolo consiglio per i neofiti di Milano, la leggenda che vuole i milanesi, intesi come coloro che vivono a Milano, non che a Milano sono nati, quest’ultima categoria è piuttosto rara in natura, sempre di fretta è vera. Qui si corre sempre. E siccome si corre sempre, le scale mobili non vengono interpretate come una specie di ascensore sotto forma di scala, ci sali su e scendi solo al momento in cui sei arrivato al piano. No, qui le scale mobili sono fatte per andare di fretta, quindi se siete i bradipi stanchi e feriti di cui sopra, mettetevi bene a destra, lasciando libera una corsia sulla vostra sinistra, dove vedrete milanesi sfrecciare, di corsa, diretti chissà dove.
Qui in Stazione Centrale, dicevo, ci sono questi tapis roulant che però non sono chiarissimi. Nel senso che li prendi, scendi in un piano ammezzato poco sotto, poi ti trovi di fronte una marea di negozi, barettini, edicole, chi più ne ha più ne metta, li guardi e ti perdi, perché lì devi essere agile, prendere subito il tapis roulant successivo, per trovarti qualche metro più sotto e così via. A un certo punto, se la sorte ti è cara, arrivi al piano terra, quella della piazza antistante, e a quel punto le opzioni sono due, ma due davvero. O affronti la piazza, diretto magari verso i bus, o scendi ulteriormente, cercando
disperatamente la via della metro, metro che qui in Stazione Centrale offre a sua volta altre due opzioni, la MM2, detta anche La Verde, o la MM3, detta anche la Gialla, quella che poi passa per il centro, pulita, poco frequentata e piuttosto freddina, parlo di status, non di temperatura. Fuori della Stazione Centrale, quindi.
Aldo Cazzullo, nel suo pezzo così aldocazzulliano, parla di due Stazioni Centrali, dentro e fuori: Zurigo e Timbuctù. Capisco il vezzo di voler passare per provinciali anche se ormai provinciali non lo si è più, ma onestamente fatico a vedere Zurigo da queste parti, così come Timbuctù. Vedo semmai, adesso parlo del fuori, qualcosa che potrebbe assomigliare a Città del Guatemala, a Caracas, o al limite a Johannesburg, mentre dentro mi sembra tutto molto Milano, apparenza e potenza che non si riesce mai a trasformare del tutto in atto.
Fuori, allora.
Ci sono molti stranieri, centroafricani in prevalenza, e non sono viaggiatori. Qui ci vivono, parecchi, e soprattutto ci lavorano, sempre che definire lavoro quel che in genere fanno, spacciare, borseggiare, darsi al malaffare, sia codificabile come lavoro. A poco servono le camionette dei militari, le auto della polizia, loro qui hanno una sorta di permesso permanente, che neanche un Brumotti o uno Staffelli riuscirebbe a stracciare. Sulla destra, guardando il mastodonte di cui sopra, c’è un piazzale che è una specie di videogame reso sotto forma plastica. Si parte con la stazione dei taxi, sovrastata da lenzuolate imbrattate da spray, lì a indicare una sorta di protesta perenne dei taxisti, minacciati a loro dire dallo spauracchio Uber, e anche da Selvaggia Lucarelli. I taxi ci sono, pochi ma ci sono, mentre la fila di chi vorrebbe prenderli è lunghissima, pari a chi una domenica al mese decide di mettersi in coda per vedere Milano dall’alto del palazzo della Regione Lombardia, in zona Isola. A fianco partono gli shuttle per gli aeroporti, Malpensa e Orio al Serio, i biglietti li vendono in strada, i turisti che si aggirano come trottole cercando di capirci qualcosa fanno molto folklore locale. Non essendoci un parcheggio che si possa dire tale, uno per una ventina di auto sta sulla destra del piazzale antistante, roba che copre il fabbisogno di un paio di viaggiatori calabresi che stanno per lasciare definitivamente la città, poi uno dopo la stazione dei taxi, caotico, con più strade labirintiche che posti, probabilmente progettato da un urbanista fan del prog inglese, non essendoci, ribadisco, un parcheggio che si possa dire tale le auto di chi viene in zona per recuperare qualche viaggiatore, o anche per accompagnarlo, sono buttate un po’ dove capita, nella speranza che se mai ci fosse un qualche vigile provi a governare la massa di delinquenti che nel mentre si muovono alla ricerca di prede, seppur nella certezza che una multa per divieto di sosta è più semplice da fare e meno rischiosa. Andando verso est, cioè verso la parte da cui i treni arrivano sbuffanti verso la stazione, si trova un parchetto, che poi diventa un parco vero e proprio, da poco istituito, e subito diventato luogo di bivacco notturno per alcuni dei senzatetto della zona, a dormire dove di giorno poi giocano i bambini. Qui di domenica, oggi non è domenica, ma passare ci si passa anche di domenica, spesso, c’è uno spettacolo molto affascinante, il posto diventa luogo di ritrovo per migrani dell’est Europa con la giornata libera. Quindi si vedono gruppi di badanti ucraine intente a parlare tra loro in una lingua a noi ostile, e uomini, spesso più verso l’età della pensione che quella del diploma, in coda per farsi tagliare i capelli da un loro qualche compatriota.
Poco dopo, proseguendo sulla stessa rotta, si trova il tunnel di Viale Brianza, che fino a qualche tempo fa era casa per buona parte dei senzatetto della zona. Tra le due corsie, una diretta verso piazzale Loreto, l’altra verso via Melchiorre Gioia, in un marciapiede tornito di colonne, si trovava un mini campeggio di disperati, lì con materassi trovati chissà dove, armadi ricavati da carrelli della spesa, ripari costruiti alla bene e meglio. Poi un giorno sono stati tutti mandati via, con l’idea, romantica, che vivere in strada non sia dignitoso. E infatti si sono spostati a poco più di un chilometri da lì, su una piazza tagliata in due da Viale Marche, a pochi passi dalla sede di Avvenire. A passarci in auto, è una delle strade più trafficate di Milano, parte della circonvallazione esterna, si vedono tante tende di Decathlon, amache, panni stesi appoggiati agli alberi. Tempo fa qui c’è stato uno stupro, una donna che viveva in strada che si era fidata di un uomo che viveva in strada, e non lo dico per criminalizzare la vittima, ci mancherebbe altro, ma per sottolineare come due disperazioni che si incontrano solo in certi romanzi o film romantici portano a qualcosa di buono. Tornando però al fuori Stazione, è tutto un via vai di varia umanità, chi di corsa, perché deve andare urgentemente da qualche parte, chi più lentamente, perché da poco arrivato e ancora non del tutto conscio né dei ritmi cittadini, né della forma stessa della città, chi solo in apparenza immobile, pronto a colpire la vittima di turno, aspettando che il sole cali per farsi ulteriormente padrone della zona. Arrivato in città ventisei anni fa dalla provincia, Ancona, ho capito una grande verità, se lì i miei capelli lunghi, il mio vestirsi sempre di nero, la mia barba incolta veniva interpretato come un voler sfidare le regole, magari anche le leggi, col risultato che venivo fermato ogni settimana dalle forze dell’ordine per controlli che risultavano buffi più che fastidiosi, qui nessun tutore della legge mi ha mai calcolato in tanti anni di vita milanese. Non risulto neanche eccentrico, temo, nonostante la cura che metto nell’apparire poco curato. Il mio non risultare pericoloso, però, è letto alla medesima maniera anche da chi invece, suppongo, per i tutori della legge pericoloso appare, fatto che non mi concede troppa libertà nel muovermi tra chi delinque, esattamente con un Aldo Cazzullo qualsiasi.
Più facile, credo, che mi accolgano tra loro i ragazzini, quasi tutti di origine cinese o filippina, che sfrecciano sugli skateboard, quasi sempre dando vita a capitomboli degni di finire a Paperissima, piuttosto che qualcuno di questi personaggi degni di finire in un video dei Die Antwoord, nella speranza che i Die Antwoord tornino a farne, mi possa lasciar passare indenne scambiandomi per uno di loro. Nelle vie antistanti, penso a via Macchi, per fare un nome, ci sono i residui di questa fauna. Disparati in chiave minore che può capitare di vedere cagare nascosti dietro una auto incautamente lasciata parcheggiata lì. Un tempo, quando arrivavo in treno e non avevo voglia di farmi la fila per i taxi, le file ci sono sempre state, anche se un tempo c’erano anche i taxi, appunto, mi spostavo proprio da queste parti, chiedendo allo 024040 o 028282 una macchina in via Macchi non ricordo più quale numero, facendo una attesa di giusto un paio di minuti invece che di un’ora. Oggi passerei probabilmente un’ora in attesa a sentirmi le musichette della segreteria di quei numeri, constatando come per quanto si sia disperati e probabilmente con una alimentazione altalenante, cagare si caga tutti uguale, la sola differenza che c’è chi lo fa in casa e chi nascosto dietro una macchina, neanche troppo bene. La metropolitana chiude poco dopo mezzanotte. La vita dentro la stazione pure, a grandi linee. Ho provato a dare della Stazione Centrale un racconto un po’ più roots, senza quei filtri che ti fanno apparire le gote rosse, le labbra turgide e cancellano tutte le rughe, roba che in confronto quelli che ti appiccicano al viso le orecchie e il naso da cane è roba seria. L’ho fatto forte di tante volte che da queste parti ci sono passato, per non dire delle volte che mi ci sono trovato a fare riunioni con gente di passaggio, gente cui evidentemente il Covid e Zoom non dicono nulla. Poi, certo, l’ho fatto passando del tempo qui, oggi, ma non quello che ho finto di passarci. Si chiama letteratura, baby, mai prenderla troppo sul serio. Mica penserete davvero che ho passato qui tutte le ventiquattr'ore di una giornata? Non l’ha fatto Cazzullo, perché mai avrei dovuto farlo io?