Massimo Gaudioso è tra gli sceneggiatori più interessanti che abbiamo in Italia (e che mezzo mondo ci invidia). Negli anni ha saputo scrivere storie, creare mondi, trasformare le sue idee in lungometraggi senza tempo. Il sodalizio artistico che lo lega da tempo al maestro del cinema Matteo Garrone ci ha regalato capolavori come Dogman, Pinocchio e il più recente Io capitano. Noi gli abbiamo chiesto com’è nata la sua passione per le parole e la fascinazione per i racconti, quali sono i film che da ragazzo lo hanno tenuto incollato al grande schermo e anche domandato se il famigerato avvento dell’intelligenza artificiale nel cinema corrisponda a un rischio o a una risorsa. Ecco la nostra intervista esclusiva a Massimo Gaudioso.
Lei si è laureato in Economia e Commercio e ha poi lavorato negli anni come copywriter in una agenzia pubblicitaria, quando c’è stato lo scatto verso il mondo della sceneggiatura?
Per la verità, ho sempre sognato di fare cinema. Mi sono iscritto a Economia e Commercio, è vero, ma non ti nascondo che ho frequentato l’università con grande fatica, nonostante poi mi sia laureato con un buon punteggio. Dopo la laurea, andai da mio cugino che lavorava in una multinazionale a Milano, e lui mi consigliò di provare a lavorare nel campo della pubblicità perché poteva essere un buon compromesso tra la mia passione e ciò che avevo studiato. Dopo aver fatto un sacco di colloqui, mi presero in prova come copywriter junior in una grande società internazionale. Dopo pochi mesi, seppi che si sarebbe aperta una succursale a Roma dedicata soltanto alla produzione video, e così colsi la palla al balzo e, invece di rimanere a Milano e fare una carriera incentrata sulla pubblicità pura, chiesi di poter andare a Roma. Qui realizzavo spot, filmati industriali, video per le convention e mi sono occupato anche dei primi “trailer” per la Rai, un'esperienza divertente e appagante perché scrivevo i testi e seguivo il montaggio. Contemporaneamente riuscivo a seguire anche diversi corsi di sceneggiatura quando finivo di lavorare, così da tenere sempre viva questa mia passione, nella speranza che prima o poi qualcosa nella mia vita cambiasse.
Dal 1986 ha seguito diversi seminari e corsi con grandi Maestri della sceneggiatura come McKee e Benvenuti. Quali sono stati gli insegnamenti che ancora oggi porta con sé?
Feci il primo corso in Italia di McKee, il guru della sceneggiatura americana. Fu molto istruttivo perché insegnava un modo diverso, più schematico, di pensare e scrivere una sceneggiatura. Ma è con Ugo Pirro, un altro grande maestro, che ho il ricordo più intenso. Il suo corso era incentrato su quella che lui aveva definito la regola del “rovesciamento”. Pirro ce la spiegò prendendo a esempio un film che aveva scritto: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. L’idea alla base di quella storia era che il poliziotto che doveva indagare su un omicidio era l’assassino. Questa idea di rovesciare i piani divenne una regola a cui fece ricorso tante altre volte quando scriveva un film. Ecco, quello è stato un insegnamento che mi è rimasto impresso.
E in che occasione l’ha sfruttato?
In generale nel mio lavoro mi ha dato un’apertura mentale. Ho sempre applicato questa regola un po’ ovunque quando scrivevo, in fase di brainstorming o nelle prime stesure, se c’era un intoppo provavo a invertire non solo un carattere ma qualunque cosa, anche i dialoghi per vedere cosa poteva succedere. Mi sono accorto che questo metodo apriva delle prospettive nuove, mi ha aiutato a non fossilizzarmi troppo sulle idee precostituite. Peraltro funziona benissimo nelle commedie.
Lei è nato a Napoli. Come riporta Fanpage nel 2023 sono stati ben 36 i film girati a Napoli nel 2023, 15 le serie tv realizzate parzialmente o interamente in città. Cosa sta succedendo?
Mannaggia, fosse successo prima! (ride, nda). Per me era inevitabile che prima o poi sarebbe successo. Me lo chiedevo sempre: ma com’è possibile che nessuno si accorge dell’enorme potenziale di questa città? Napoli è una città cinematografica, lo è sempre stata, è una città dove alto e basso convivono, è ricca di personaggi e di contrasti molto forti. C’è un popolo, c’è sempre stato, e vive da secoli nel cuore della città. Anche visivamente è una città molto interessante e variegata. La gente sembra sempre che reciti, c’è questa confusione tra realtà e finzione, sono tutti un po’ attori. È una cosa che ho vissuto fin da piccolo e mi ha segnato, mi sembrava incredibile. Del resto non dimentichiamoci che Napoli è anche la città con la tradizione teatrale più importante del Paese.
In un articolo recentemente uscito su Internazionale su Hollywood e l’industria cinematografica si legge una testimonanzia secondo cui "gli sceneggiatori perdono potere come le maestranze. I talenti di fascia alta guadagnano più che mai, ma le persone che fanno girare l’industria vengono lasciate indietro”. Cosa ne pensa, è un discorso che si potrebbe applicare anche alla realtà italiana?
Intanto bisogna dire che in America un autore, uno sceneggiatore, è sempre stato considerato di più. Anche se in Italia c’è stata un’epoca, dopo il neorealismo, in cui molti intellettuali si sono cimentati in questa arte nuova. Ripenso a Ugo Pirro e ad altri grandi nomi, scrittori che si trovavano ad avere dei contratti molto vantaggiosi perché allora c’era fame di storie e di sceneggiatori ce n’erano pochi. Comunque, se parliamo in generale, quella dello sceneggiatore è sempre stata una figura sottovalutata e un po’ sfruttata: i compensi di uno sceneggiatore sono spesso inferiori ai suoi meriti e alla mole di lavoro che svolge. Poi è chiaro che il cinema come industria è iniziato con lo star system, quindi è normale che vengano maggiormente considerati in primis gli attori, poi i registi. Oggi la situazione sta cambiando.
In che senso?
I nuovi sceneggiatori italiani, seguendo l’esempio americano, si stanno battendo per rivalutare questa figura, soprattutto nella serialità, dove l’autore della storia è più importante del regista. In America c’è lo show-runner, ovvero l’autore che non scrive solo la storia ma ha il potere di mettere becco su tutto quello che si fa, sceglie il cast e a volte perfino la regia. Insomma qualche passo avanti c’è stato, però in linea di massima i problemi legati alla remunerazione e alla visibilità credo persistano.
Secondo lei l’algoritmo delle piattaforme interferisce nella scrittura artistica di un film o di una serie?
Potrebbe anche essere un aiuto, ma lo dico per ignoranza perché non so che peso possa avere l’algoritmo anche in relazione a una piattaforma come Netflix. Di sicuro nella costruzione di una trama ci sono delle regole che vengono applicate ogni volta e che derivano dai manuali di sceneggiatura americani, quindi è inevitabile che tutto questo porti a una certa omologazione delle storie. Io però sono positivo per quanto riguarda il futuro, penso che alla fine prevalga sempre la fantasia e il libero pensiero, tutto quello che rompe le regole, perché questa impostazione alla fine stanca.
Da giovane le è mai capitato di guardare il grande schermo e dire “questo film avrei voluto farlo io”?
Per fortuna quando ero ragazzo al cinema c’era un grande cinema americano, nuovo, potente, con storie e personaggi incredibili e quindi ogni settimana o quasi uscivano film come Apocalypse now, Taxi Driver, Il cacciatore. Uscivo dalla sala cinematografica con la voglia sempre più forte di fare cinema. E io lo volevo fare proprio così, “bigger than life”, come dicono gli americani.
Tendenzialmente è più difficile scrivere una sceneggiatura di un remake o tratta da un libro?
Partire da un libro può essere molto difficile, specie se è molto bello. Qualcuno diceva che “dai grandi libri vengono quasi sempre scritti brutti film” e in parte è vero, nel senso che lo sceneggiatore ha un potere di intervento maggiore in un libro imperfetto in cui ci sono spunti interessanti perché ha la possibilità di prendere solo le cose che gli interessano o che gli sembrano migliori, e farci quello che vuole. Partendo da un grande romanzo invece, succede casomai il contrario, perché un film dura al massimo qualche ora e quindi bisogna tagliare personaggi, situazioni e rinunciare a tante cose belle. Anche il remake ha delle difficoltà perché ci si deve confrontare sempre con il modello originario, che di solito funziona. In certi casi conviene stravolgere tutto, ma non è sempre così. Quando ho visto Benvenuti al sud per fare il remake ho pensato “cavolo, ma perché non lo abbiamo fatto noi in Italia, dove il divario tra nord e sud è molto più forte che in Francia?”. La trama era perfetta quindi era meglio non toccarla, ma siccome in Italia di situazioni divertenti e autentiche sul tema ce n’erano un’infinità ho potuto lavorare talmente sui dettagli che alla fine la storia sembrava quasi più originale dell’originale.
Quest’anno Garrone con Io capitano era nella short list agli Oscar, ricordiamo però che anche Dogman era stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2019 senza rientrare nei dieci film pre-selezionati. Secondo lei perché questo film ha convinto di più?
Forse la storia è sembrata più universale e meno cupa. Il tema delle migrazioni è molto attuale, anche se noi abbiamo cercato di raccontarlo evitando di cadere nella retorica della narrazione televisiva e lo abbiamo scritto come un grande romanzo di avventura, un romanzo di formazione sul genere di Twain, Dickens e altri scrittori classici. Che poi quello è: un ragazzo desidera conoscere il mondo e si trova a vivere una serie di avventure che lo fanno crescere e maturare. È anche una storia che richiama molto la struttura di Pinocchio, che avevamo già affrontato. Inizialmente, avevamo pensato di unire la storia di questo ragazzo che deve venire in Italia con quella di Pinocchio, ma io e Ugo Chiti avevamo evidenziato a Matteo i possibili rischi di questa scelta. Così, dopo che Matteo ha realizzato una versione più filologica di Pinocchio, siamo tornati a lavorare su "Io Capitano”.
Quale tra i film di Matteo Garrone è stato più difficile da scrivere?
Dogman senza dubbio perché è stato una gestazione durata tredici anni (ride, nda). Abbiamo ripreso questa storia per ben sei volte ma c’era sempre qualcosa che non andava, non riuscivamo a mettere a fuoco l’anima del personaggio e anche il tema che si portava dietro.
Come è nato il difficilissimo film Racconto dei racconti per la regia di Matteo Garrone?
All’inizio l’idea di fare un film da un testo così articolato e complesso sembrava una follia. Poi ragionandoci è tutto cambiato. Innanzitutto abbiamo deciso di rimuovere la cornice narrativa delle cinquantadue fiabe. Poi ci siamo concentrati sulle singole storie. Matteo voleva creare un horror a modo suo. Il fatto di avere un genere cinematografico di riferimento ha semplificato le cose. In questo senso ci siamo confrontati sulle fiabe che ci colpivano di più, scoprendo che avevamo selezionato più o meno le stesse, in tutto sette o otto. Abbiamo fatto le scalette di ognuna di queste. Alcune si sono rivelate difficili da raccontare poiché mancavano di un protagonista chiaro, con un obiettivo e un tema ben definiti. Abbiamo sviluppato quelle dove si riuscivano a tirar fuori questi tre elementi. Alla fine ne erano rimaste tre: la vecchia scorticata, la pulce e la cerva fatata. Nella prima storia il tema era molto chiaro già nel testo originale: una donna vecchia vuole diventare giovane. Abbiamo solo deciso di cambiare il punto di vista facendo diventare protagonista la sorella meno ambiziosa. A quel punto ci siamo resi conto che anche nelle altre due storie, apportando un po’ di modifiche al testo, le protagoniste potevano essere delle donne. Nella pulce, cambiando punto di vista, abbiamo fatto in modo che il protagonista non fosse più il padre ma la figlia data in sposa all’orco. Le abbiamo dato un obiettivo che era già presente anche se inconscio, la voglia di emanciparsi dal padre e diventare adulta. Anche con la cerva fatata abbiamo spostato il fuoco dai due gemelli alla regina che nel testo aveva una piccola parte ma fondamentale perché tutto nasceva dal suo desiderio di diventare madre. E così siamo riusciti a individuare quello che volevamo, le protagoniste delle tre storie, tre donne, ognuna con un’età diversa e ognuna con un obiettivo che rappresentava un tema diverso, molto preciso: il desiderio di diventare grande, quello di diventare madre e quello di restare giovane. Storie surreali che però abbiamo raccontato in un modo molto realistico. Se in passato partivamo dalla realtà per arrivare a qualcosa di più fiabesco, in questo film abbiamo fatto il contrario.
Lei una volta ha detto “ammiro molto chi riesce a scrivere solo ricorrendo alla fantasia, ma io proprio non ci riesco. Devo fare mille ricerche, anche inutili a volte, ma mi servono per avere sicurezze in ciò che faccio”. Quanto spesso le sue storie iniziano dalla sua vita quotidiana?
Non si tratta tanto della vita quotidiana, anche se il punto di partenza del mio primo film, Il caricatore, nasce proprio da un'esperienza personale, o meglio da un sogno che avevo fatto. Quando ho cominciato a lavorare con Matteo Garrone abbiamo trovato subito un'intesa sul modo di immaginare un film. Le prime storie erano ispirate a personaggi veri, esistenti o realmente esistiti, a fatti di cronaca, la fantasia interveniva solo successivamente. Alcune storie erano già incredibili di per sé, con un forte elemento fantastico emergente. Abbiamo sempre cercato di conoscere a fondo le storie che avevamo deciso di trasformare in un film attraverso un accurato lavoro di documentazione, in modo da potercene appropriare. Una volta che abbiamo compreso bene il mondo di quella determinata storia e i personaggi che la animano, che ce ne siamo appropriati, allora sì che può entrare in gioco con forza la fantasia, sempre partendo però da una base di realtà.
Lei ha scritto varie commedie penso a Un paese quasi perfetto, L'abbiamo fatta grossa, La scuola più bella del mondo e La stranezza. Spesso si afferma che per un attore sia più facile far piangere che ridere, per uno sceneggiatore è più facile scrivere storie drammatiche o comiche?
Secondo me è più facile scrivere storie drammatiche. Io amo la commedia, fosse per me farei solo commedia non solo perché è molto gratificante, ma poi è sempre una sfida far ridere e allo stesso tempo creare dei personaggi con un’anima e una vita interiore.
Sempre su Ai e Cinema, Brigiano con Salvati sta preparando un progetto Rai su Edoardo Bennato e secondo Ansa utilizzeranno anche l’Ai. Che ne pensa?
Finché rimane nell’ambito del “supporto” ci può pure stare, il rischio grande è che si trasformi in un concorrente dello sceneggiatore, perché al momento della stipula di un contratto potrebbe indebolire il potere contrattuale dello sceneggiatore e questo non va bene e lo dico per il sistema.
Secondo il regista Francesco Brigiano: “Per me è uno strumento per creare visioni ambiziose che non avrei potuto realizzare con i budget ridotti di cui posso disporre. Ci sono almeno 10 diversi software di Ai per creare contenuti, ma tutto parte dallo storytelling, dalla capacità di un autore di immaginare mondi”. È così?
Non sono esperto della materia, ma hai davvero bisogno dell'AI per ottenere questo? Secondo me no. L'AI non ti fornisce necessariamente più contenuti di una persona. In Italia il più grande limite alla creazione di contenuti è sempre stato il budget, non la mancanza d’immaginazione. Negli Stati Uniti sono molto più fortunati, dato che il loro sistema industriale è sempre stato molto più forte del nostro. Anche i giovani registi possono pensare a storie fantastiche e trovare grandi case di produzione disposte a investire 200 milioni di dollari. Penso a registi come Nolan, che lavorano con budget a cui noi in Italia non possiamo neppure avvicinarci.
Fenomeno Boris. Più di dieci anni fa questa serie ha “rappresentato” diverse maestranze, lavoratori del mondo dell’industria cinematografica, tra cui gli sceneggiatori descritti ironicamente come figure molto lontane dal set. Le chiedo c’è qualcosa di vero in questa sarcastica raffigurazione?
Conosco e apprezzo Boris, dieci anni prima con Il caricatore avevamo realizzato qualcosa di simile, ma sul cinema. Boris riguarda più una realtà televisiva. Rappresenta bene le frustrazioni, le situazioni paradossali di difficoltà e di sudditanza, che si vengono a creare in quel contesto e che degenerano in quel modo di lavorare un po' automatico. Le analogie ci sono, tuttavia, secondo me, certe dinamiche appartengono più al mondo televisivo che a quello cinematografico. In televisione, c'è spesso una routine che può portare a queste frustrazioni, mentre il cinema, con tutti i suoi problemi, offre un contesto diverso, forse perché ha a che fare di più con il sogno.