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Marco Giusti: “Garrone agli Oscar non ha sbagliato”. L’Olocausto? Diventa un genere, come un western”. E sprona il cinema: “I film italiani sono belli? No. Hanno preso un sacco di soldi? Sì…”

  • di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

19 marzo 2024

Marco Giusti: “Garrone agli Oscar non ha sbagliato”. L’Olocausto? Diventa un genere, come un western”. E sprona il cinema: “I film italiani sono belli? No. Hanno preso un sacco di soldi? Sì…”
Intervista al critico cinematografico Marco Giusti che ci ha spiegato la mancata vittoria di Matteo Garrone agli Oscar 2024, dopo che il regista si è lamentato di non aver ricevuto informazioni sufficienti per essere competitivo: “La zona d’interesse è un film inglese e di conseguenza partiva favorito”. Non è solo una questione legata al tema, quello dell’Olocausto, che piace di più all’Academy (manda un messaggio a Massimo Ceccherini). E poi sullo stato del cinema italiano e le idee del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano…

di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

Matteo Garrone, con una strategia diversa, avrebbe vinto l’Oscar come miglior film internazionale per Io Capitano? I film che parlano di Olocausto piacciono di più all’Academy? In Italia i film non hanno successo perché non sono di qualità? A queste domande è facile rispondere affermativamente o negativamente. Sì o no. Invece, alcuni hanno la pazienza di aprire le questioni, per osservarle nel loro disegno più generale. Per questo abbiamo intervistato il critico Marco Giusti. La prima questione che gli abbiamo posto è relativa proprio a Io Capitano, dato che lo stesso regista si è lamentato del fatto che nessuno gli ha detto che il suo film poteva correre in tutte le categorie, aumentando le probabilità di successo: “La vera ragione è che l’industria inglese (che ha sostenuto La zona d’interesse nda) è più forte”. Insomma, non si tratta solo di un tema meno efficace agli occhi dei votanti dell’Academy, come ha sostenuto Massimo Ceccherini. La questione è più complessa di così. Un parere, poi, sullo stato del cinema italiano, su cui Giusti è piuttosto perplesso: “Si fanno troppi film. È una follia, così andiamo a sbattere con un muro”. Il muro, in questo caso, è la scarsa qualità artistica delle opere che arrivano in sala, strumenti di raccolta di credito d’imposta, più che pellicole di valore. A questo, poi, si aggiunge un problema: “Chi sceglie quali film fare e quali no?”. E sul ministro della cultura Gennaro Sangiuliano e l’idea di rivedere il sistema di finanziamento pubblico ci ha detto che, al di là dei modi, “dice quello che diciamo tutti da trent’anni”. Ma la soluzione, pare, non è ancora stata trovata. Come si tengono insieme qualità e sostenibilità economica?

Il critico Marco Giusti
Il critico Marco Giusti

Marco Giusti, Matteo Garrone ha detto che Io Capitano è stato svantaggiato per aver corso agli Oscar solo come miglior film internazionale. Com'è possibile che nessuno, con un film così importante, gli abbia detto di correre in tutte le categorie per essere competitivo?

Matteo Garrone è uno che si sente sempre in gara su tutto, anche giustamente. Nella corsa agli Oscar è stato molto attivo, cioè ha provato veramente a vincere. C’è da dire che il film favorito, Anatomia di una caduta, era stato eliminato dalla Francia. Perché parliamoci chiaro, avrebbe vinto. Però il fatto è che La zona d’interesse è un film inglese e per questo aveva un pubblico maggiore rispetto al film italiano.

La tematica può aver svantaggiato Garrone?

Si parla di migranti, è un film sugli africani, dove però non c'è un operatore o uno sceneggiatore che sia nero. Sicuramente è più forte il tema dell’Olocausto, anche se La zona d’interesse non è un film esattamente su Auschwitz e sugli ebrei: è piuttosto sulla banalità di come si vivono oggi le guerre e qualsiasi altra cosa orrenda. Ma Auschwitz per un pubblico americano all'Oscar è chiaramente più forte.

Quindi gli errori nelle scelte e nella distribuzione non c’entrano?

Non so se ha fatto errori. Poi se ne parla sempre dopo, quando è più facile. Se avesse avuto un distributore più forte magari avrebbe potuto vincere, però ricordiamoci che già entrare tra i primi cinque è stata una cosa complessa. Io ricordo che gli scommettitori davano il film di Glazer come sicuro vincitore. Io non credo che Garrone abbia fatto errori, praticamente.

Massimo Ceccherini si è espresso male, ma è vero che in un certo senso i film sull’Olocausto sono favoriti?

Stiamo parlando di film che vincono l'Oscar, che sono appunto Schindler's List, La vita è bella, che sono quello di Glazer o Il figlio di Saul. Film completamente diversi, ma non è giusto dire che vince il tema e basta: vince anche un tipo di cinema che fai. Spielberg, Laszlo Nemes (regista de Il figlio di Saul, nda) fanno comunque un cinema molto forte e diverso, al punto che il tema stesso, l’Olocausto, diventa un genere. È come fare un western, anche se è bruttissimo dirlo, mi rendo conto, però in realtà è così. Il genere migranti, invece, è più difficile da capire, questo è chiarissimo. Poi il pubblico cambia molto. La dimostrazione è che quest’anno Past Lives e Perfect Days hanno avuto successo. Piccoli film intelligenti e fatti bene.

Jonathan Glazer, regista di La zona d'interesse
Jonathan Glazer, regista di La zona d'interesse

Glazer è stato criticato per il suo discorso anche dal regista de Il figlio di Saul, che trattava un tema simile.

Lui però ha criticato il discorso, perché quello rientra nella polemica tra chi attacca gli ebrei per Gaza e i pro-Gaza che invece fanno muro. Era una cosa tutta ebrea. È meglio non avventurarsi troppo, perché ognuno ha le sue idee. Secondo me ha fatto benissimo Glazer a fare il discorso che ha fatto. Anche perché il suo film era esattamente su quello.

L’Academy, però, dovrebbe fare un passaggio in più: anche se il pubblico è meno ricettivo nei confronti di un tema dovrebbe saper riconoscere il film migliore, no?

Ripeto, quello di Glazer è un grande film. Cioè non puoi fare il ragionamento se è meglio quello o meglio l'altro. È bellissimo anche La sala professori, per esempio, su un tema importante come l'Occidente multietnico. Però evidentemente è meno forte. La vera differenza, oltre al tema, è che dietro c’è l'industria inglese. Agli Oscar i film erano fatti da Christopher Nolan, Justin Triet, da Glazer: mancavano i registi americani, tranne nel caso di American Fiction. Questo già ti dice che il cinema americano è in crisi. La zona d’interesse era sostenuto dall'industria inglese, che è molto forte a Hollywood.

L’industria americana sta venendo sostituita da quello europea?

In parte sì, io penso a Nolan, che è inglese anche lui, ma anche a Perfect Days. Insomma, c'erano film occidentali, orientali e pochissimi film americani.

Il ministro Gennaro Sangiuliano parla del finanziamento pubblico ai film in Italia come di un regalo per i soliti registi, gli stessi nomi dello stesso circolo. È davvero così?

Lui dice cose che abbiamo sempre detto tutti. Ai tempi d’oro i film li facevano i produttori con gli incassi e poco altro. È chiaro che se hai un cinema sovvenzionato tendi a questo modello del cinema fatto a Roma in famiglia, con gli amici. È un metodo che non porta tanto. Il punto non è quello.

Cioè?

Il punto è quanti film fai, quanti soldi spendi e cosa guadagnano. Ce ne sono stati troppi, diciamo, non proprio bellissimi. Li abbiamo visti tutti i film italiani: allora, sono belli? No. Hanno preso un sacco di soldi? Sì. Se togliessimo i soldi a questa industria allora dovremmo cercare di trovare qualche altra idea per avere un cinema più competitivo, scegliendo quale film fare e perché. Siamo sempre lì: chi decide quale film si deve fare e quale no? È difficile. Col metodo del tax credit molti produttori sono quasi obbligati, per recuperare i soldi, a farne tanti. Il tuo film viene ripagato solo quando parti con il successivo. Diventa un cane che si morde la coda. Il produttore fa un film bene, il secondo un po' meno, il quarto film è bruttissimo. E tutti se ne fregano. Ha fatto un bel discorso il regista di American fiction (Cord Jefferson, nda) agli Oscar: non fate film da 200 milioni, fate 20 film da 20 milioni. Cioè spendi meno e cerca di tirare fuori dalle opere prime e seconde dei nuovi grandi registi.

Cord Jefferson, regista de American fiction
Cord Jefferson, regista de American fiction

Secondo alcuni il fatto di fare un film da 200 milioni permette di fare anche tutti gli altri.

Questo funziona se questo incassa 600 milioni. Ma se ne incassa 100, come è capitato a molti film americani recenti, allora il sistema crolla.

Forse far uscire film in sala, anche per pochi giorni, permette di essere più competitivi nelle trattative con le piattaforme. Quindi c'è anche un discorso strategico, no?

Sì, può essere anche questo. Però è un metodo di uscire per quattro giorni per recuperare i soldi dal tax credit, ma non è un discorso coerente. Perché alla fine si fanno film che sono soltanto numeri. Io ho visto numeri pazzeschi, specialmente che adesso abbiamo votato per i David, ma è una follia. C'è realmente una bolla produttiva. Se non ci diamo un minimo di controllo andiamo contro un muro. Non puoi fare tutti questi film.

Noi abbiamo intervistato Gianni Canova e Piera Detassis ed entrambi ci hanno detto che i fondi andrebbero dedicati anche alla comunicazione e al marketing: lei è d’accordo?

Indipendentemente dal costo ogni film al botteghino scompare, a meno di uscite particolari. Questa è la cosa sbagliata. Per quanto riguarda il marketing non lo so, non vediamo più nemmeno un manifesto. Io non so quali siano i giri. TikTok, per esempio, qualche clip sui social. Ma i film italiani che erano a Venezia sono andati male e quelli avevano avuto esposizione. Non credo sia solo un discorso di marketing. Poi questo è stato un anno assurdo.

In che senso?

Abbiamo avuto C'è ancora domani di Paola Cortellesi che ha fatto 36 milioni. Però ha occupato 400-500 sale per mesi e quindi altri film che sarebbero potuti andare meglio l’hanno patita questa cosa. Se tu spendi 12 milioni, 20 milioni e poi incassi 500 mila euro o un milione e mezzo è veramente una crisi. Hai un film andato molto bene e altri venti andati male, che non è dimostrazione di un cinema sano.

https://mowmag.com/?nl=1

Una domanda provocatoria: esiste ancora un cinema indipendente visti tutti questi fondi che vengono erogati?

È complicato, perché se parliamo con i produttori ti dicono che i costi sono elevati. Per esempio, il mio amico Ciro Ippolito vuole fare un film con me con mille euro, una cifra simbolica. Magari si può anche fare il film indipendente, però nessuno lo vuole davvero. Diventa una cosa utopica fare un cinema realmente indipendente. Se hai già il culo al caldo prendi i soldi, non rischi niente e buonasera. Quello che fino a sei anni fa si poteva fare con una piccolissima troupe, adesso devi farla con una troupe enorme. Con gli stessi risultati. Poi secondo me è un bene fare i film a basso costo che siano anche belli.

E sui toni di Sangiuliano?

Quelli sono un po’ ridicoli, come tutta la storia del cinema radical chic. Al di là di questo, però, è quello che abbiamo sempre detto tutti.

Il ministro parla dell’appiattimento delle piattaforme sul politicamente corretto e contemporaneamente il sottosegretario Gianmarco Mazzi critica la scelta di fare una serie su Rocco Siffredi. Come stanno insieme le due cose?

Figuriamoci. Ripeto, sono cose ridicole. Io dico: fate fare il cinema a chi lo sa fare. Tutti sono convinti in Italia che il cinema sia una cosa facile solo perché ci sono tanti soldi pubblici e che le idee al cinema si sviluppano facilmente. Non è così, anzi, è tutto difficilissimo: dalla ricerca del budget a quella delle idee. Niente è un affare sicuro.

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