Uno schermo nero e un titolo, La zona d’interesse, che mano a mano sbiadisce, fino a scomparire. Nei primi secondi dell’ultimo film di Jonathan Glazer, ispirato a un libro di Martin Amis, si può già intravedere il nucleo dell’opera. L’interesse e la memoria durano poco. Troppo comodo dimenticare, troppo invitante la facilità dell’indifferenza. Una famiglia felice, una bella casa, la servitù. Lenzuola candide che, in un’inquadratura spietata, coprono la torre di vedetta del campo di concentramento di Auschwitz. La zona d’interesse è la storia della famiglia di Rudolf Höss (Christian Friedel) , il comandante del campo. Giornate che scorrono serene, tra un regalo per il suo compleanno (una canoa appena ridipinta) e i giochi dei figli piccoli ma “sani e forti”. Eppure, in sottofondo, sono implacabili i suoni che provengono da oltre le mura che separano la villa dalla fine del mondo. Ogni tanto un colpo di pistola e il fischio del treno che frena sulle rotaie: subito dopo in casa Höss vengono portati nuovi vestiti e una pelliccia per la moglie del comandante, Hedwige (Sandra Hüller). La donna si occupa del giardino, che lei stessa ha progettato, riceve le amiche e sua madre, che le ricorda la fortuna che le è capitata: “Sei davvero caduta in piedi, tesoro”. Dal campo, solo rumore. Si rifiuta di farcelo vedere, il regista, consapevole che ogni immagine di fronte ad Auschwitz perde di significato. Come si fa a rappresentare ciò che va al di là di ogni rappresentazione? A quello che è successo si può solo alludere. Ecco, allora, il fumo che annebbia il cielo sotto al quale giocano i bambini ariani e felici, e le sempre presenti finestre delle caserme del campo. Al massimo vediamo qualche prigioniero che va e viene, senza dire una parola. Muti, loro, perché incapaci di descrivere. Ciechi, gli Höss, poiché quel muro è molto più di una barriera fisica. Ma l’idillio sembra non poter durare: il comandante deve trasferirsi e lasciare la guida di Auschwitz. Non se ne capacità Hedwige: “Qui abbiamo quello che sognavamo da quando avevamo 17 anni, il nostro spazio vitale a est”.
Ma Jonathan Glazer non ha in mente un documentario per La zona d’interesse, e non si tratta nemmeno della ricostruzione di una vicenda familiare. Quel campo e quel muro sono certamente un fatto storico, ma anche il monito che quella violenza può tornare. La cronaca sembra dargli ragione. Poco valore hanno le date e la cronologia di quel genocidio: “Ognuno di noi dovrebbe pensare che può diventare un carnefice. Chi decidiamo di amare e chi decidiamo di odiare? Perché?”, ha detto Glazer in un’intervista a Style Magazine. L’istinto omicida di Rudolf Höss è ormai un riflesso, la risposta automatica a qualsiasi stimolo. Confessa alla moglie che, durante un incontro con altri gerarchi, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era “come gassarli tutti”, dato che il soffitto era troppo alto. L’esecuzione di un piano banale, come si è detto più volte. Per niente banale, invece, è il film di Glazer, che riesce a dirci tutto senza mostrarci, in definitiva, niente. Ci sono il bianco e il grigio che caratterizzano la famiglia Höss, colori neutri e proprio per questo spaventosi. Una fotografia ordinata, maniacale nella sua precisione, che incornicia personaggi in un quadro la cui stabilità raggiunge i limiti del nauseante. Le voci dei protagonisti mai sopra le righe, poi, garantiscono loro l’assoluta estraneità di esecutori rispetto allo sterminio in corso. Cosa resta, quindi, di questo affresco pallido e meccanico? Uno sguardo in camera, la polvere sulle vetrine dei musei e appoggiata sui percorsi dedicati alla Giornata della Memoria. Un passato che vorremmo rimanesse tale, come una diapositiva appesa al muro. Invece, dall’opera di Martin Amis Jonathan Glazer riesce a tirare fuori un film che alza la voce senza retorica. La zona d’interesse ci ricorda di quel muro con il filo spinato che non ha smesso mai di esistere. Nonostante tutti i nostri sforzi di fare finta di niente. E ci mette in testa quei rumori di fondo costanti, provenienti da quel lato del mondo che nessuna immagine può davvero rappresentare. La zona d’interesse guarda alla storia, ma riesce a declinarla al presente.