Emma Dante, regista di teatro e cinema che ha messo al centro di buona parte della sua indagine artistica la condizione della donna, su Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen ed Elly Schlein non ha dubbi: “Sono le tre Parche (o Moire). Donne di potere che intessono i destini dell’umanità come le figlie di Giove e Temi (la Giustizia). Tessitrici del destino di tutti noi”. Con le dovute differenze di visione, di storia politica e personale, di ruoli e narrazione, la regista palermitana le vedrebbe in scena, in un coraggioso e generoso accostamento, come le tre figure femminili della mitologia greca e latina. Perché? Perché “Tessere i destini delle persone attraverso la politica è una responsabilità anche mitologica”, spiega. La produzione di Emma Dante, dal teatro al cinema, scava fino a raggiungere le radici del femminile. L’archetipo della madre, della puttana, dell’amante, della moglie, della pazza, della sottomessa e della manipolatrice spietata. Dalla cagna divoratrice circondata da uomini figli e servi, metafora dell’organizzazione mafiosa in Cani di bancata, alla donna ingannata e ripudiata dai fratelli perché incinta di Carnezzeria. Da Le sorelle Macaluso, adattamento cinematografico dell'omonima pièce teatrale vincitore del Nastro d’argento alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2021 fino all’ultimo film, Misericordia, favola contemporanea che racconta la fragilità delle donne e la loro disperata e sconfinata solitudine. L’attesa silenziosa, la ribellione urlata, la carezza e il grido inaspettati, il sogno di libertà dentro la stanza chiusa, il rituale apparentemente uguale nello scorrere dei giorni, la cura del quotidiano, la tela che si scompone e si ricompone fino a non disfarla più: l’universo delle sue donne è fatto di sentimenti contrastanti, costrizioni e fughe, ambizioni negate e tentativi di emancipazione, relazioni imposte e ricerca di autonomia dentro il piccolo quadrato del divieto. Quello in cui le donne ritrovano sé stesse e cominciano a volare. La raggiungiamo al teatro Studio Melato dove fino al 28 marzo va in scena in prima assoluta (in coproduzione con il Piccolo Teatro di Milano) il suo ultimo lavoro: Re Chicchinella, ultima parte della trilogia di opere ispirate alla poetica di Giambattista Basile. Non un lavoro sul femminile in questo caso, ma sulla solitudine del potere. Scritto e diretto dalla regista, è tratto da un racconto della raccolta Lo cunto de li cunti: mescola elementi grotteschi, comici e tragici per narrare una storia di avidità e ipocrisia. Chicchinella è solo. Nonostante sia il Re.
Emma Dante, la base del suo nuovo spettacolo è una favola. Pur sempre un archetipo. Non sul femminile ma sul potere.
Mi ispiro spesso alle favole per la creazione dei miei spettacoli. Mi interessa mettere in scena quel mondo incantato che ha sempre a che fare con il mito ed è profondamente radicato nella nostra cultura e nella nostra filosofia. Ma lo faccio per raccontare una verità, non l’incantesimo. Protagonista della vicenda è un re che, tornando felice da una battuta di caccia, viene colto da un bisogno corporale e commette il tragico errore di impiegare, per pulirsi le terga, un animale che crede morto, una gallina con le piume morbide e setose. Ma la gallina, tutt’altro che defunta, si incolla al didietro del sovrano e gli risale su per le viscere. Al palazzo reale medici e luminari tentano ogni rimedio, spalmano unguenti e adoperano strumenti di tutti i generi. Non c’è niente da fare, con il passare dei mesi la gallina prende definitivamente alloggio dentro il malcapitato divorando tutto quello che mangia e facendogli espellere uova d’oro.
Nello spettacolo c’è una coreografia comica e tragica al tempo stesso: le dame di corte sono tutte galline.
In questo caso però il femminile non c’entra. La corte è un personaggio, rappresenta le tante facce di una comunità. Per immaginarci quali caratteristiche dovessero avere le dame che la popolano abbiamo lavorato sulle galline, su come si muovono questi pennuti, su come si sarebbero espresse le dame se fossero state, davvero, delle galline. Le coreografie nascono soprattutto dal movimento che compie la gallina quando cammina, perché è un animale che ha un senso del ritmo pazzesco, sembra quasi che danzi. Ha un modo incredibile di muovere la testa quando fissa le persone e le cose con il suo sguardo vuoto così eloquente. Lavorando su quel genere di movimento siamo approdati alle nostre cortigiane, con le imbottiture sulle cosce che le fanno sembrare più tonde. È una corte molto buffa dove le dame si parlano l’una con l’altra ripetendo le cose come in un telefono senza fili. Questo perché nessuna di loro coltiva un pensiero personale ma si imitano tra loro e non hanno nulla di autentico da dire.
Nessuna allusione alle ‘corti’ femminili contemporanee?
No. Questo è uno dei pochi spettacoli che non mette al centro il femminile. Posso solo dire che la cifra rimane comunque la mia: allestimenti sfacciati. Come quando vediamo rappresentata per davvero nel culo di Re Chicchinella una gallina. Lo so, questo è scorretto, non si fa. Ma la sfacciataggine e la forza dell’immagine e del movimento sono caratteristiche del mio modo di lavorare. Tutta la mia produzione va contro il ‘non si fa’. Sono convinta che il teatro debba scuotere e dare schiaffi al pubblico.
In Carnezzeria: trilogia della famiglia siciliana, il finale è assurdamente simbolico. Scuote.
La scena finale è quella che associo di più all’immagine di denuncia femminista per eccellenza. La donna inchiodata a terra per il velo da sposa. Carnezzeria è la storia di una famiglia di carne da macello, con i suoi legami morbosi. Al centro della storia una sorella incinta e i suoi tre fratelli. Lo spettacolo è la messa in scena della cerimonia per assolvere la donna dal peccato: pulire la macchia, riparare il guasto, togliere il disonore al figlio bastardo. Nina, la protagonista, è infetta, marchiata. La pancia gonfia è il punto intorno al quale si compie il suo destino, sul quale si accaniscono con la rabbia dei perdenti i tre fratelli incapaci di comprendere. La loro esistenza sta nel senso di proprietà: sesso, corpo, territorio e possesso sono gli unici moventi che generano, attraverso una terribile bestialità, tutta la loro natura di zanne e artigli. I tre fratelli fanno credere a Nina, vestita da sposa, che la porteranno a sposarsi al Nord. Lei ci crede. Invece inchiodano il suo velo da sposa al palcoscenico e se ne vanno. Lei rimane così, abbandonata a sé stessa ma al guinzaglio.
Ricordo alcune scene degli spettacoli di Pina Bausch, fra cui Palermo Palermo, commissionato dall’allora sindaco del capoluogo siciliano nell’89 Leoluca Orlando. La donna che sul proscenio dice ‘questi spaghetti sono miei e non li presto a nessuno’ e la donna col calice in mano che gli uomini in elegante completo fanno girare come fosse un manichino nelle loro mani. Quando si tratta di recensire un suo spettacolo le redazioni non sanno mai se mandare il critico di prosa o di danza.
Il mio modo di fare teatro, infatti, non ha collocazione precisa. Ho preso molto dal teatro danza tedesco di Pina Bausch ma anche dal teatro del regista polacco Tadeusz Kantor. Nei miei spettacoli esiste sempre una drammaturgia del movimento. Nella fisicità degli interpreti, in quella corrispondenza fra respiro narrativo e fedeltà del corpo nella sua espressività, fra parole e viscere, si rappresenta una verità. Ma c’è anche il testo.
Torniamo alle donne dei suoi spettacoli. Sono estreme. Ma hanno parola non solo gesti.
Le mie donne vengono da un mondo estremo. Sono prigioniere fuori ma dentro sono donne libere. Sono palermitana, nata negli anni ‘60, ho vissuto l’epoca dei grandi cambiamenti per l’emancipazione femminile. Ma al Sud, in un contesto più difficile rispetto al Nord. La mia attenzione al femminile nasce da quel contesto personale. In casa mia c’erano solo donne: mamme, nonne, zie. Gli uomini andavano a lavorare, ‘a caccia’, come dico io. Tornavano a casa alla sera. Mia madre lavorava tutto il giorno come casalinga: non è mai stata pagata per questo, come tutte le donne che si sono occupate della cura. Però io percepivo i suoi sogni e quelli delle altre. Sfarfallavano dentro una stanza chiusa. Erano sogni fatti apparentemente di nulla. Uscire senza figli, andare al cinema: la libertà di non fare niente. Si sono ottenuti grandi traguardi da quegli anni a oggi ma la differenza fra il Nord e Sud è ancora marcata. Questione di mentalità.
Esiste un femminismo che non va in piazza e sui social eppure è lotta silente?
Esiste eccome. E lo riconduco a mia madre, che mi ha aiutato a essere una donna diversa. Quel femminismo si compie nella quotidianità delle donne che, ancora prigioniere della cultura patriarcale, trovano un terreno fertile per esprimere la propria lotta. Mia madre, oltre a instradarmi all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’amico di Roma e a insegnarmi la possibilità di un destino diverso, è stata una ribelle anche nei fatti. Ha divorziato da mio padre a 50 anni. Allora, nella mentalità siciliana, divorziare a quell’età non più giovane era qualcosa che non si faceva. E torniamo alle ‘cose che non si fanno’. La sua scelta andava coraggiosamente contro una visione della famiglia maschilista. Quelle famiglie dove il figlio maschio non si alza da tavola per sparecchiare.
Il lavoro più femminista che ha messo in scena?
Le sorelle Macaluso, diventato anche un film e premiato. Racconta di cinque sorelle che seguiamo sin da quando sono bambine. Non ci suono uomini, volutamente. Nemmeno i loro genitori. Sono genitrici di sé stesse. Autonome dall’ inizio alla fine, riescono a vivere tutta la loro vita senza apporto maschile. Un microcosmo matriarcale.
Se dovesse associare una figura mitologica femminile alla contemporaneità della cronaca?
Penserei a Medea che uccide i figli, visti gli innumerevoli casi di infanticidi della storia recente. Ma anche ad Antigone, che assocerei a Elena Cecchettin. La presa di posizione della sorella della vittima Giulia mi fa pensare al personaggio di Antigone che vuole seppellire il fratello ma non le viene permesso. Simbolicamente.
Lei è madre adottiva. Ha mai pensato alla Gestazione per altri?
No. Ho deciso subito di adottare. Ora ho un figlio di 11 anni e sono una madre felice. Mio figlio proviene da una storia disgraziata, da un orfanatrofio russo, lo può scrivere. Le adozioni permettono di prendersi cura dei bimbi meno fortunati. Volevo proprio un figlio che esiste già, non uno che avesse somiglianza con la mia faccia ma prendermi cura della diversità. Tuttavia sono contro i divieti e capisco le necessità degli altri, aspiranti genitori.
Se fosse una delle tre Parche per quale legge si batterebbe?
Per consentire anche in Italia alle famiglie omosessuali, come coppie, l’adozione.