Dopo il grande successo del romanzo La straniera (La nave di Teseo, 2019), finalista al Premio Strega e tradotto in più di 25 lingue e Paesi, arriva il nuovo e attesissimo romanzo di Claudia Durastanti: Missitalia (La nave di Teseo) disponibile in libreria e online a partire dal 5 marzo. Il romanzo, in una meravigliosa copertina blu con scintillanti scritte oro, ruota attorno ad alcuni macro-temi che diventano via via sempre più specifici: si parla di sud, di magia, di ecosistemi, di storia e di tecnologia, ma soprattutto si parla di donne. Le ambientazioni sono diverse, dalla Lucania, e in particolare la Val D’Agri, con la sua natura, i suoi calanchi desertici e la sua montagna “tenebrosa e di velluto” – come la stessa autrice ci ha poi detto – non lontano dai comuni di Aliano, dove Carlo Levi ambientò il suo Cristo si è fermato a Eboli, e di Montemurro, dove nacque il poeta e saggista Leonardo Sinisgalli, fondatore della rivista Civiltà delle macchine. Poi c’è Roma, quella del secondo dopoguerra, quella degli anni Cinquanta, che resta, ancora oggi, una “zona d’ombra” nella letteratura contemporanea; fino ad arrivare, infine, in un immaginario Mondo Nuovo nel futuro, dall’Agenzia Spaziale Mediterranea direttamente sulla Luna. Le vicende narrate in Missitalia si sviluppano infatti su oltre duecento anni di storia e sono divise in tre parti autonome, in periodi storici molto diversi e con protagoniste differenti. La prima parte intitolata Le anguille, narra di Amalia Spada, una donna definita “Madre”, anche se madre non è, che vive nella Lucania degli anni Sessanta del 1800, fra tumulti, violente e sanguinolente repressioni e l’arrivo della prima grande industrializzazione, in un luogo dove “non c’è magia senza fatica”. La seconda parte, Acquasporca o Detesto i sopravvissuti, ambientata negli anni Cinquanta del secolo scorso, narra invece di Ada, che da segretaria di una redazione a Roma diventa una “spia senza una premeditazione”. La terza parte, infine, Siamo stati felici nel futuro già dal titolo preannuncia una dimensione e uno spaziotempo molto particolari. È qui che piombiamo infatti nel Mondo Nuovo, sulla Luna, in una curiosa cornice di “fantascienza sentimentale” – come la stessa autrice poi ci dirà – dove la protagonista è A, che vive nel futuro prossimo del 2051. Proprio a proposito dei numerosi e variegati temi affrontati, così come del titolo, delle fonti di ispirazione e della traduzione, abbiamo intervistato l’autrice Claudia Durastanti (Brooklyn, 1984), che sulla complessità della struttura e dei generi di questo romanzo ci ha detto: “È come se fosse un libro che è, in qualche modo, una desaturazione progressiva”. Come uno svelamento progressivo di personaggi, di tempi e di luoghi, molto diversi fra loro, che hanno sempre e comunque una dimensione corale, collettiva e plurale al centro.
Claudia, a proposito del tempo del romanzo: si sviluppa su duecento anni di storia, su tre linee temporali differenti. Come nasce l’idea di svilupparlo proprio su tre periodi storici così diversi e con che criterio sono stati scelti?
Volevo confrontarmi con delle zone che avessero delle “temperature” diverse: la prima parte è ambientata in un momento molto caldo dal punto di vista storiografico e volevo raccontare anche un modo di sentirsi e di appartenere al sud, senza però fare di questo un'arma di “appartenenza meridionale”, anche visto che oggi tra musica e tv c'è una vera e propria fabbrica di “immaginario del sud”. Sulla seconda parte, ambientata negli anni Cinquanta: diciamo che a un certo punto mi sono convinta che il romanzo italiano contemporaneo dedicasse molte lettere d’amore agli anni Sessanta e Settanta, ma gli anni Cinquanta venivano raccontati meno, c’era una “zona d’ombra” poco esplorata. Ho immaginato gli anni Cinquanta come un periodo storico di grande effervescenza, con personaggi che – visto il periodo - non hanno nostalgia di niente, ma si sentono sempre spinti in avanti rispetto al futuro, in una città che si ricostruisce. Per la terza parte invece, c’era l’idea di un futuro a breve termine. Oggi siamo davvero circondati dalle narrazioni costanti sull’Apocalisse, sull’esaurimento, ma comunque noi non “finiamo”, non moriamo del tutto, non arrivano (ancora) i risultati di questa “accelerazione”. Mi sembrava divertente l’idea di tornare a una crisi della presenza, andando però sulla Luna. Dunque, un futuro che non è lontanissimo da noi – siamo nel 2051 – con l’idea di sognare il passato e storicizzare il futuro.
Nelle tre parti del romanzo vengono alternate prima e terza persona, come mai questa scelta?
Nella prima e nella terza parte, uso la terza persona e sono quelle in cui il tasso di invenzione è maggiore. Sono anche le parti scritte con maggior audacia e sperimentalismo linguistico. Nella seconda parte volevo raccontare una prospettiva femminile intima e più ravvicinata, e qui sento l’ispirazione di altre storie e altri romanzi. Lì, in qualche modo, ci sono i fantasmi di De Martino, Pavese, Pivano, Pasolini, Scotellaro... Un po’ una “congiura di fantasmi”, quindi dovevo avere più controllo, tenere di più le redini, per cui ho utilizzato la prima persona. Nella seconda parte, poi, sento anche un debito verso Natalia Ginzburg, un’autrice che non ha scritto mai di sé, ma ha usato tantissimo la prima persona. In questo senso mi sono appoggiata ad altre autrici e autori.
In Missitalia hai mai parlato di te?
Sì, penso sia che sia un libro molto personale. Nelle prime interviste avevo anche una sorta di fragilità e tenerezza che non ho invece avuto con La straniera, perché lì ho passato cinque anni a parlare di varie circostanze del mio vissuto, ma qui invece, c'è qualcosa nelle scritture legate all'autofiction, alla prima persona, all'estrazione di materiale biografico che crea un grado di vulnerabilità. La straniera presentava la storia di una famiglia, di una ragazza, di una persona che cresceva e aveva una tendenza a rendere il suo privato “universale”. Qui invece c'è quasi un movimento opposto, nel senso che c'è un'attenzione verso la comunità, l'ecologia, il senso del tempo, della storia e della magia, che però riflettono lo sguardo da un punto di vista molto preciso, che è il mio, e per questo è un po’ come parlare e raccontare dei libri che ami, dei film che ti sono piaciuti, una parte della propria biografia che non ha nulla a che fare con quello che effettivamente ti è successo, ma che parla comunque di te.
Nel passaggio da La straniera a questo storia, comunque intrisa di te, ma più aperta, con un racconto più collettivo e corale, con più voci e prospettive, Missitalia è un romanzo più politico?
Lo riporto al pop: una cosa che mi ha fatto molta impressione è il momento in cui sul palco di Sanremo c'è stata questa scena in cui Dargen D’Amico ha detto “Io non mi voglio mischiare con la politica, non dico cose politiche, dico cose di buon senso”. Lì mi sono resa conto che, anche in buona fede, la parola “politica” è diventata veramente una cosa sporchissima che nessuno vuole mettersi in bocca. Quando scrivevo La straniera, andavo in giro quasi nascosta, perché in quel periodo, anche se c’erano già delle scritture autobiografiche, venivano ancora viste come opere con una minore dignità letteraria. Allora, quando poi ho iniziato a scrivere Missitalia, e le persone mi chiedevano cosa stessi scrivendo, ho sentito che in quei cinque anni qualcosa era cambiato. In inglese, per esempio, rispondevo “I’m writing a novel – novel”, ovvero un ‘romanzo romanzo’, più “classico” diciamo... Quindi per me il momento politico coincide con questo spostamento di focus: dal tema della famiglia de La straniera, a quello della comunità. Volevo fare un romanzo che avesse un’attenzione verso la comunità.
Come nasce il titolo Missitalia?
Una volta stavo andando a Berlino, ma la mia vita si è sempre mossa su un asse italiano-lucano-brooklyniano-americano, non ho avuto e non ho studiato altre lingue, ma un’amica mi disse: “Ti devi germanizzare un po’”, con l’idea scherzosa di dire che mancasse un “momento tedesco” nella mia coscienza letteraria. Quindi, il concetto, detto in modo semplice, era quello di fare un titolo composto, come nella letteratura tedesca. In realtà all’inizio avevo in mente tutt’un altro titolo, che forse era tremendo, e sarebbe stata una storia completamente diversa sul Meridione, avevo pensato a un titolo tipo La malalingua, ma avrebbe guidato tutto un altro tipo di racconto, molto diverso… Allora ho elaborato Missitalia, perché “miss” è una delle parole che forse uso di più rispetto al rapporto con le canzoni, con la letteratura e il senso di mancanza. Poi è anche una parola che sta sparendo nel suo altro significato, quello di “signorina”, di giovinezza, del fatto di “non essere sposata”. Quindi ho avuto l’idea di prendere questa parola “vecchia”, con dentro un verbo molto presente, molto usato, e poi mi interessava anche l’idea, non solo di sentire la mancanza di qualcosa, ma anche il fatto di non raggiungerlo quel qualcosa, di fallire il bersaglio.
A proposito dei temi del romanzo, in che modo è affrontato quello della trasformazione della natura?
Diciamo che non è un romanzo che tratta la questione ambientale ed ecologica con una presa diretta, anche perché non ne ho le competenze, ma penso che l’unico modo di affrontare il tema sia quello del buonsenso. C’è un’idea di presentare il cambiamento naturale come un evento che si sviluppa in un periodo lunghissimo e qui sicuramente sono stata influenzata da Donna Haraway, che ho tradotto qualche anno fa. Tra l’altro, sull’impatto dell’uomo, ho letto che pochi giorni fa è stato stabilito che il termine “antropocene” non è più una definizione corretta dal punto di vista geologico, perché non ci sono tracce sufficienti per stabilire che il nostro impatto e la nostra impronta abbiano trasformato il mondo radicalmente e in maniera irreversibile, ed è un po’ quella che diceva anche Haraway: forse non siamo così importanti, da dare a un atto di egocentrismo questo peso e pensare che l’uomo abbia trasformato in modo così radicale. Mi sembra che nel dibattito ecologico e ambientale a volte ci vergogniamo di alcune nostre forme di dipendenza verso lo spreco di risorse e cerchiamo di “compensare” adottando alcuni comportamenti, ma quella vergogna della dipendenza da atteggiamenti “tossici”, allora, dove la mettiamo? Penso che una trasformazione e un cambiamento arriveranno solo nel momento in cui saremo tutti un po’ più disposti a parlare di questo nostro coinvolgimento, e forse proprio le generazioni più giovani possono spingere e spazzare via il nostro discorso “nostalgico” e sofisticato sul piano sentimentale.
A proposito dei temi e del genere del romanzo: si parla di storia, di sud, di magia e di tecnologia, quest’ultima soprattutto nella terza parte. Oggi è difficile catalogare i romanzi contemporanei in un solo genere specifico e definito, ma quali sono i generi di questo romanzo? Se consideriamo le prime due parti forse è più un romanzo storico, con un focus sul realismo magico nella prima parte, ma per la terza parte invece, proiettata nel futuro, in un Nuovo Mondo, con una protagonista che si chiama solo “A”, si potrebbe dire che la terza parte è una distopia, o un sci-fi?
Da tempo pensavo che volevo fare una cosa di fantascienza sentimentale, perché quando ho visto Interstellar di Nolan, per esempio, l’ho odiato profondamente, proprio per come è gestita la parte sull’amore, quella nella quarta dimensione. Poi ho letto molto anche Mark Fisher, che è uno studioso, critico, sociologo e ha fatto tante cose a cui sono affezionata e nell’immaginare il rapporto con la storia, con il fantasmatico e con la letteratura di genere, ho avuto l’idea di fare una “fantascienza a bassa intensità”, perché volevo lavorare con i generi, ma con diversi generi: il genere del romanzo storico a bassa intensità, come una sorta di noir e di spionaggio nelle prime parti. Mentre sul sci-fi, forse per me è stato un po’ alibi quello di pensare di poter lavorare su un certo genere, anche non conoscendo tutti i suoi trucchi, un po’ come il personaggio di Rosa Spina, che nella prima parte dice “non c’è magia senza fatica”. Per me allo stesso modo non c’è genere letterario senza fatica. La terza parte sicuramente non è un hard sci-fi, perché non mi sono immersa profondamente nel mondo delle macchine, ma rispetto a un certo pregiudizio sul fatto che le donne lavorino solo con generi “a bassa tecnologia”, ho anche pensato, non è che facendo una fantascienza sentimentale, senza le super macchine tecnologiche, non sia un lavoro “di fatica”, come dice invece il classico stereotipo da manuale.
Una domanda sui personaggi: in questo romanzo si parla spesso di personaggi sopravvissuti, più che di salvati; quindi, chi è salvato e chi è sopravvissuto?
La seconda parte (“Acquasporca o Detesto i sopravvissuti”) in realtà all’inizio si chiamava proprio “Detesto i sopravvissuti”, in maniera programmatica, che è in realtà un relitto di un romanzo che stavo scrivendo all’epoca e di cui mi dissero che il titolo era troppo respingente. Io l’ho comunque infilato dentro questo titolo, e viene un po’ da Vonnegut, quando gli chiesero com’era stata la sua esperienza in guerra e lui disse: “Non fidarti mai di un sopravvissuto, se non sai cosa ha fatto per sopravvivere”. Quindi la genesi è questa. Chi sopravvive è chi resta, quindi forse restano le romantiche, restano quelle che agiscono, le sante, le rivoluzionarie, le femministe… Poi per me un’altra cosa importante era quella di parlare della povertà: ci avevo lavorato su un piano personale ne La straniera, e qui volevo farlo in una maniera più collettiva, perché c’è sempre stata un’idea di classi dominanti e di cosa devono fare le persone della propria povertà materiale, così come della propria infelicità, con un’idea in qualche modo “prescrittiva”, ovvero il doversi accontentare, ubbidire, con un certo concetto di dignità della povertà, come se così il tuo personaggio sopravviva di più. Un po’ come dire che “sopravvivi meglio, se ti accontenti delle tue circostanze materiali”, che per me è un messaggio profondamente reazionario. Quindi, quando i vari personaggi qui, le donne, dicono che vogliono più letti, più cibi, più amanti, liberamente, è un momento di sovversione rispetto alle aspettative di quella che è la loro vita. Diciamo che allora sopravvive meglio quel personaggio che si rovescia e si ribella di più rispetto alle aspettative.
Il romanzo si conclude con: “A avrebbe detto: per ricominciare, sulla Terra. Dove la parola Fine era ancora possibile”. Visto che proprio alla fine c’è questa idea che è ancora possibile tornare e ricominciare, nonostante la parola “fine”, si può considerare un finale aperto?
Qui l’uso della parola “Fine” alla fine era anche una cosa un po’ vintage: sentivo la mancanza dei romanzi che finivano con la parola “fine”. Poi c’è un’altra parola di cui faccio abuso nella mia scrittura, che è “meraviglia, meravigliosamente”. Inizialmente avevo pensato di concludere con “Dove la parola Fine era meravigliosamente possibile”, però quello avrebbe significato impostare o dettare un tono mio, che invece non era necessario. Allora resta incerto, aperto.
E a proposito della traduzione: è già presente o in programma una traduzione inglese? La straniera, per esempio, era stato tradotto in più di 20-25 lingue, però traducendo c’è sempre una difficoltà nel tradurre perfettamente. La curerai tu direttamente?
Per la traduzione inglese ho chiesto all’editore inglese, lo stesso che ha pubblicato anche La straniera, se si possono avere tre traduttori diversi per le tre parti. Forse è insostenibile dal punto di vista economico, ma questa co-traduzione, secondo me, sarebbe un interessante esperimento. Sul titolo mi hanno già detto che è intraducibile. Io pensavo che Missitalia fosse facile, essendo talmente pop, da non richiedere spiegazioni, ma mi hanno subito detto “The title must go”, in maniera lapidaria. Però no, sulla questione della traduzione per le tre parti, vorrei fosse gestita così perché vorrei ci fossero tre lingue diverse e tre approcci diversi che sarebbe bello vedere affidandole a tre personalità diverse di traduzione.