“Non sono madre, non sono cattolica, sono femminista, lesbica, contro la compravendita di neonati commissionati”. Daniela Danna, scrittrice, attivista culturale e docente di sociologia all’Università di Lecce, è in prima linea sulla questione della maternità surrogata. Spirito ribelle e furioso (il suo poema in endecasillabi si intitola proprio La Dana Furiosa) al liceo Parini di Milano quando eravamo compagne di classe era una ragazza inquieta e ribelle. Contestava. Ma argomentava talmente bene che le acute riflessioni dei suoi elaborati venivano lette ad alta voce. Con buona pace di noi fancazzisti, copioni di luoghi comuni che faticavamo a riempire una colonna di foglio protocollo. Subito dopo la laurea scrive Amiche, compagne amanti, storia dell’amore tra donne pubblicato da Mondadori. È il libro che dà inizio alla sua carriera di saggista. Ma è anche la pubblicazione che segna il suo coming out in un contesto ancora faticoso per le donne lesbiche. Diventa un’attivista culturale del movimento gay e lesbico e una docente universitaria. Tiene conferenze, scrive decine di saggi, si occupa di temi urgenti e delicati come transizione di sesso (chiamarla “transizione di genere” per lei è inesatto), maternità surrogata, patriarcato nell’era globale, matrimoni e genitorialità omosessuale. La raggiungo telefonicamente in Grecia, dove sta lavorando da remoto per la Facoltà e dove sta scrivendo ‘furiosamente’ endecasillabi per il suo terzo poema. Mi racconta che nell’isola dove si trova, Lesbo, c’è il sole con una dolcezza che me la fa ricordare sui banchi di scuola. Ridiamo della temibile professoressa di greco Motta, spauracchio del liceo, e condividiamo un momento un po’ commovente: è strano come i ricordi che abbiamo non coincidano. “Ma tu sapevi della mia omosessualità?”, chiede. “Certo che lo sapevo, me lo hai confidato tu un giorno in ascensore”, ricordo solo questo. Nemmeno dove eravamo. Penso che solo insieme possiamo ricostruire il passato. Altrimenti le esperienze condivise si perdono in frammenti personali che da soli non dicono niente. Anche come donne possiamo costruire insieme.
Daniela, ho letto sul tuo sito la recensione molto critica al libro, uscito postumo, di Michela Murgia, Dare la vita, di cui non condividi i contenuti, dalla visione della famiglia alla maternità, fino all’apertura alla gravidanza surrogata in Italia.
Cominciamo dai nomi. Murgia usa il termine “gravidanza surrogata” mentre io uso “compravendita di neonati”. Nei miei libri Maternità. Surrogata? (Asterios 2017) e Fare un figlio per altri è giusto. Falso! (Laterza editore, 2017) spiego che la differenza tra gpa (gestazione per altri, come eufemisticamente la chiamano) altruistica e gpa commerciale non esiste. Dove si ammette il commercio di neonati, che sia sotto forma di pagamento o di “rimborso spese” ricevuto dalle portatrici, la donna è retribuita in cambio del neonato. Possiamo ammantare questa situazione con termini quali generosità e altruismo, ma sono etichette vuote per indorare i fatti.
Come vedi la situazione in Italia oggi rispetto all’introduzione di una legge sulla maternità per altri?
In Italia vale ancora il principio “mater sempre certa est. La madre è colei che partorisce. Questo principio impedisce di cedere la maternità ad altri con un contratto. Esiste già l’istituto dell’adozione che permette a una donna di affidare alle istituzioni un bimbo non voluto perché sia accolto da altri genitori. Che sono valutati nella potenziale adeguatezza.
In altri Paesi invece come funziona?
Ci sono circa una ventina di Paesi che hanno introdotto l’istituto giuridico. Fra cui Grecia e Gran Bretagna. Anche l’Olanda, ma con una formula molto restrittiva. Cito anche Russia, Ucraina, Messico e California. Generalmente nei Paesi europei dell’Est la gestazione per altri è stata considerata una tecnica di riproduzione assistita. Alla donna in questi Paesi è espressamente vietato di riconoscere il figlio, se l’embrione non ha affinità genetica con lei. In altri Stati invece c’è un mercato vero e proprio di neonati dove i committenti pagano la portatrice come da contratto e lei deve sottoporsi ai controlli richiesti e partorire, di solito, con cesareo programmato. Dopo il parto il bambino le viene subito tolto. Ma non è uguale ovunque. In California, per esempio, viene incentivata una relazione di affetto durante la gravidanza fra gestante e figlio. In qualsiasi caso, comunque, per me si tratta di una violenza ai danni del neonato, un essere indifeso che non può lamentarsi.
Non sei cattolica. Ma le tue posizioni sono affini a quelle espresse da Papa Francesco. Il pontefice ha definito la maternità surrogata una lesione della dignità della donna e del figlio, fondata sullo sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre.
Non mi stupisce che fra cattolici e laici su questioni umane importanti come questa ci possa essere convergenza. Così come sulle guerre e su altri temi fondamentali per l’umanità tutta. Ma questa battaglia la portano avanti diversi movimenti femministi. Anche Arcilesbica e le intellettuali della Libreria delle donne di Milano si battono per il valore della donna nella sua specificità. L’adozione, lo ribadisco, permette già alla donna la facoltà di non tenere un neonato e permette ad altri di prendersene cura. Sottolineo, oltretutto, che questa legge disincentiva la pratica dell’adozione.
Vedi nella maternità surrogata (so che non ti piace questo termine) un’ulteriore prevaricazione patriarcale?
Assolutamente sì. È un ritorno allo sfruttamento della donna. Il patriarcato non riconosce l’importanza delle donne, che danno la vita e cancella questa parte dell’esperienza femminile che passa attraverso il corpo. Cerca di industrializzare la procreazione sulla loro pelle e su quella dei neonati. Ma “donare un figlio” è invece uno scambio economico. Cambiare le parole non serve. La donna che partorisce è la madre. Anche nel caso di un ovulo non suo.
Torniamo al libro di Murgia, che fa un parallelismo fra aborto per motivi economici e maternità surrogata.
Questo parallelo è abbastanza surreale. Siccome è consentito interrompere una gravidanza non voluta, spesso anche per mancanza di soldi, deve essere consentito il portarla a termine per guadagnare. Che logica è questa?
Anche sulla famiglia queer decantata da Murgia sei critica.
Veramente io non vorrei parlare della sua famiglia, che non conosco. Solo che quando Murgia parla di “madre d’anima” a me viene in mente la zia. Ma anche la cugina, l’amica adulta o la vicina di casa. Il termine queer per me non chiarisce. Non fa riferimento alle donne ma a tutti. E se si parla in maniera neutra, il neutro nella nostra società è maschile, cancella le donne. Michela Murgia scrive di essere queer perché non si vuole definire. Ma se le donne non vengono nominate, spariscono. Il movimento gay e lesbico ha detto almeno fin dagli anni Settanta ‘noi esistiamo’, non siamo convertibili in eterosessuali, vogliamo essere liberi di essere gay e lesbiche. E noi lesbiche siamo donne, non possiamo scomparire nel termine “queer”.
L’indeterminatezza nell’autodefinizione sottrae specificità?
È giusto riconoscere di non sapere cosa si è, va bene anche non dover per forza arrivare a saperlo. Ma alcuni di noi lo sanno: eterosessuale, bisessuale, gay, lesbica. Per chi sa chi è, l’indeterminatezza non è libertà ma è la vecchia costrizione sociale a fingersi etero, tacere, nascondersi: negazione che millenni di cristianesimo e di patriarcato ci hanno inflitto. Ricordiamoci che il patriarcato è la parola usata per denunciare l’oppressione degli uomini sulle donne a loro vantaggio materiale e spirituale, senza riflettere sul fatto che proprio “omosessuale” è il termine dell’auto-nominazione di una categoria repressa dal patriarcato.