Prima, un articolo della giovane scrittrice Laura Tripaldi su La Stampa, il 2 dicembre scorso, intitolato “Non partoriremo per sempre: nasceremo dalle macchine” (in realtà, una ripresa della meno nota rivista Il Calibano, ma la Tripaldi, che le presentazioni riferiscono munita di dottorato in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali, ha il suo ultimo libro da lanciare, e il quotidiano torinese ha certamente maggiore eco). Poi, in coda a un servizio de Le Iene affidato a una rediviva Paola Barale spedita in Ucraina a indagare sulla maternità surrogata, un medico locale che preannunciava che in un non lontanissimo futuro l’aumento della sterilità femminile sarà compensato dal ricorso all’utero artificiale. Se finora era stato l’utero in affitto il pomo della discordia, pare affacciarsi ora alla ribalta quella che potrebbe essere la prossima tappa della ricerca scientifica: l’ectogenesi. Intendiamoci: una Tripaldi non fa primavera (né tanto meno un oscuro camice bianco ucraino). Però, a sussulti, il tema ogni tanto emerge. E la possibilità teorica di fare a meno del corpo delle donne, per creare la vita umana, non è pura fantascienza. A coniare il termine (dal greco “ecto”, fuori, e “genesi”, origine) fu nel 1923 il genetista inglese J.B.S Haldane, che ripercorrendo i progressi fatti fino ad allora dalla genetica immaginava che nel 2070 sarebbe stata disponibile una tecnologia in grado di sviluppare embrioni umani all’esterno dell’utero femminile, dal momento della fecondazione al primo vagito. Neanche dieci anni dopo, lo scrittore Aldous Huxley fece sua l’ipotesi nel celeberrimo romanzo “Il mondo nuovo”, in cui gli esseri umani vengono prodotti in serie in modalità completamente extrauterina da fabbriche secondo quote pianificate e socialmente regolate in caste. Auspici di scienziati futurogi? Distopie letterarie? A quei tempi, sì. Oggi, non proprio. Nel 2021 un team di ricercatori dell’università di Cambridge, dopo aver mantenuto in vitro embrioni di scimmia per 20 giorni, riesce a replicare il successo per 19 giorni con embrioni della stessa specie animale ma contenenti anche cellule umane. Lo standard etico riconosciuto a livello mondiale è oggi di 14 giorni, anche se due anni fa la Società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali raccomandava di indagare la praticabilità di andare oltre le due settimane. Come è puntualmente avvenuto. Quando l’uomo può fare una cosa, infatti, la fa. Nel 2022, Nature riportava la festosa notizia che, sempre a Cambridge, un embrione di topo sintetico, già formato nel tempo record di 8 giorni e mezzo, avrebbe fatto da modello per un analogo esperimento sull’uomo. E sempre un anno fa, la BBC dava voce all’ingegnere biomedico Frans Van De Fosse, dell’università di Eindhoven, che alacremente occupato in un progetto, denominato “perinatal life support”, sugli agnellini prematuri attraverso un utero meccanico. Ora, con l’espressione “utero artificiale” non si deve prendere come sinonimo, magari rafforzato, di incubatrice per i neonati, ma alla coltura embrionale, per l’appunto, in vitro. Cioè in laboratorio. Mentre nelle incubatrici, anche più avveniristiche, si aiutano i futuri bambini a non incorrere in nascite premature (cioè non prima di 28 settimane) agendo nella fase finale dello sviluppo fetale, l’utero in provetta, o biobag, viene utilizzato all’origine di quello sviluppo, intervenendo direttamente sull’embrione in un ambiente artificiale. La Tripaldi nel suo articolo cita un altro gruppo di ricerca, quello dell’ospedale pediatrico di Philadelphia, in cui l’ectogenesi sarebbe studiata in via sperimentale dal 2017 nella forma cosiddetta “parziale”, ovvero applicata per assistere i prematuri, sostituendo gli incubatori. “Nessuno sa quali siano davvero le potenzialità di questa tecnologia”, mette le mani avanti la scrittrice, dal momento che le sperimentazioni “non hanno mai anticipato il limite stabilito convenzionalmente per la viabilità fetale negli esseri umani”. Ma è proprio questa incertezza, il problema.
La Tripaldi, che sul Calibano si annunciava con il più pregnante titolo “Maternità senza natura. Presente e futuro dell'ectogenesi tra femminismo e tecnologia”, la mette sul piano della liberazione della donna: “Se l’origine dell’oppressione femminile è davvero biologica, l’ectogenesi trasformerebbe la differenza sessuale in un accidente genetico come tanti altri, rendendo il suo significato culturale quasi completamente insignificante. Forse l’identità di genere come la conosciamo oggi si dissolverebbe del tutto, e con essa anche le disuguaglianze sociali ed economiche che la accompagnano”. Naturalmente, conclude, “se la genitorialità diventasse del tutto svincolata dalla biologia sessuale, anche l'idea che esista una ‘famiglia naturale' più legittima di tutte le altre potrebbe apparirci un giorno solo come un retaggio del passato”. Lungi da noi voler infilarci in quel ginepraio che è la discussione sul rapporto fra biologico e culturale, cioè fra natura e cultura. Ci limitiamo ad avanzare due fra gli innumerevoli interrogativi che rendere superflua, per la nostra riproduzione, la maternità stessa, pone all’homo che da sapiens sapiens non voglia divenire definitivamente stupidus stupidus. Già nel 2008, il Corriere della Sera dava conto (“2038, padri (e madri) anche a cent’anni”) del solito inesausto scienziato che, tutto felice, prevedeva che un giorno, quando sperma e ovuli saranno ricavati dalle cellule staminali della pelle, come già avvenuto con i soliti topi, “qualsiasi persona, a prescindere dall’età, potrà procreare, che sia un bebè o un anziano”. È la fecondazione assistita, oggi ancora cara ma un domani, chissà, potrebbe aprire a un bel mercato. “La tecnologia — esultava Zev Rosenwaks, direttore del Centre for Reproductive Medicine and Infertility di New York — ci permetterà di sradicare completamente l'infertilità. Avremo sperma e ovociti per tutti”. Che bello. Orbene: se dovessimo metterci anche la diffusione della nascita artificiale, a parte le ovvie considerazioni etiche, tutto ciò significherebbe incrementare il numero delle nascite in una scala da incubo. E non a caso, in quel servizio del Corriere si presagiva la “manna per le donne africane” sterili. Un ciclo, si sottolineava, potrebbe costare “solo 70 euro”.
Qualcuno si domanda cosa vorrebbe dire per un pianeta già sovrappopolato a dismisura? Quanto alla sterilità femminile, quel dottore ucraino di cui dicevamo all’inizio la ricollegava, in Occidente (ma non solo: perfino in Cina, incredibile auditu, sono preoccupati per la denatalità) al cambiamento dei costumi e della mentalità, per cui la donna emancipata ritarda la scelta di diventare madre per la priorità data al lavoro, alla carriera, alla propria formazione personale (o anche, in Italia, alla semplice sostenibilità, vista la precarietà lavorativa, e pure, aggiungiamo noi, a una generale, crescente difficoltà di relazioni affettive di lunga durata, in una società di individui sempre più soli). Ecco, di recente un “comunicatore scientifico”, qualsiasi cosa voglia dire, lo yemenita Hashem al-Ghaili (34 milioni di follower su Facebook, più della Ferragni per capirci), ha prospettato l’introduzione di un utero artificiale addirittura controllabile via app, come un termostato. “Ectolife”, questo il poco originale nome del prodotto. Ovviamente, per quel che se ne sa, niente più che un’ipotesi. Ma è interessante la finalità dichiarata: “semplificare la vita”. Che poi è il mantra e la molla ideologica dell’intera evoluzione tecnologica. Siamo sicuri che la sostituzione della testarda e faticosa biologia con la più accomodante tecnologia, fino a togliere di mezzo la donna in quanto tale dal processo generativo, la liberi da un peso, o invece la privi di qualcosa che ha a fare con la sua carne e il suo istinto? Ci piacerebbe davvero, un’umanità di esseri femminili e maschili all’anagrafe ma psicologicamente, almeno come tendenza, neutri, intercambiabili, in cui nulla, né il genere né l’età, farebbe più differenza? Transumanesimo, lo chiamano. O inferno. Un luogo non esattamente ameno che, stando a padre Dante, al suo fondo è di ghiaccio.