Michela Murgia torna nelle librerie dopo averci lasciato. Lo fa con un breve pamphlet, una raccolta di pensieri sulla queerness e altri animali fantastici. Si intitola Dare la vita (Rizzoli, 2024) e funziona come un vademecum rapido e indolore al suo pensiero. Vale la pena di iniziare con due frasi: “Anziché liberare l’individuo dalla coercizione esterna, la decadenza familiare lo assoggetta a nuove forme di dominio minandone contemporaneamente la capacità di opporvisi”; “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario”. La prima è di Christopher Lasch, uno dei più importanti storici delle idee del secolo scorso che nel suo capolavoro, Rifugio in un mondo senza cuore. La famiglia in stato di assedio (Neri Pozza, 2019), decostruisce la pretesa progressista di annullare il nucleo familiare come fondante di una società umana, realmente libera, responsabilizzata. La seconda frase è di papa Benedetto XVI e arriva dall’enciclica Caritas in veritate. È interessante notare come Michela Murgia riesca in pochissime pagine a infrangere queste due premesse fondamentali per un discorso sull’affettività e sulla tenuta democratica di una qualsiasi comunità moderna. Sin dalle prime pagine, con l’attacco al modello tradizionale di famiglia, considerato da lei come da Roberto Saviano (citato) il fondamento del sistema-mafia, il patriarcato (logica biologica eteronormativa, dice, con linguaggio robotico) che domina non solo sulla donna ma sulle stranezze, su tutto ciò che è queer. Varrebbe la pena di soffermarsi su questo termine e cercare di renderlo un concetto proficuo per la nostra discussione. Ma pare che neanche Michela Murgia abbia in fondo voluto fornire una definizione.
Scrive: “Più leggo i saggi e gli studi che da almeno trent’anni articolano quella che si chiama queer theory e più mi confermano ciò che ho sempre pensato: una domanda vale più di cento risposte. Il potere di quella Q, che in inglese è anche l’iniziale della parola per ‘domanda’ appunto, è forse proprio quello di non esaurire mai gli interrogativi. Allo stato attuale dello sviluppo delle teorie queer, il termine indica in ogni caso un approccio transitorio, interstiziale, non binario: una resistenza a definizioni che stiano definitivamente dentro o fuori della soglia su cui la queerness è sempre rimasta”. In altre parole, ciò che si contrappone a un’istituzione stabile, riconosciuta, il “rifugio in un mondo senza cuore” di cui parla Lasch, altro non è che un concetto in stato confusionale, una sorta di parola onomatopeica che tende sempre di più a corrispondere alle urla e alle grida di tanti che pretendono poco da loro stessi e dalle loro teorie. Sembra infatti sia sufficiente accettare quando credono, allo stato magmatico e informe delle loro credenze iniziale, senza sviluppare alcunché di razionale. Figuriamoci, poi, di ragionevole. Così Michela Murgia inizia chiedendo che la società non si fondi su modelli condivisi antitotalitari, dove la coscienza individuale può formarsi al riparo da ciò che in tutte le distopie letterarie, da Vonnegut a Orwell, è stato rappresentato da uno Stato totalitario e anaffettivo, l’omologazione di massa; ma su modelli differenti, istituzioni giovani, fumose, che piacciono a lei.
Salvo poi, è chiaro, recuperare tutte le strutture sentimentali tradizionali, solo cambiando loro, in parte, nome, o volendo scollarle dal loro contenuto pur di far sì che possano riguardare anche loro, “i nemici del patriarcato”, i ribelli. Ed ecco che la Murgia diventa madre senza aver mai avuto gestazione. Il ché, è chiaro, non è un problema. Sei madre anche di un figlio adottato, non solo di un figlio partorito. Le pagine più belle sono quelle in cui la scrittrice parla dei suoi figli d’anima, di come abbia capito che ciò a cui teneva di più non esisteva. Deve rinunciare a una trasferta in Messico per stare accanto a uno dei suoi figli malato, ma l’organizzazione chiese un rimborso della spesa del viaggio. In assenza di un certificato di famiglia avrebbe dovuto pagare. Da qui altre vicende simili. Ci si chiede però in che modo questo genere di eventi confluisca nella spiegazione-racconto di Michela Murgia, dal momento che emerge, al massimo un vuoto giuridico che permetta a due donne, come lei e la sua compagna, di adottare. Cosa vi sia di queer, di strano, nella volontà di adottare non è chiaro. In altre parole, al di là dei genitali nella coppia, quello che emergeva non era altro che una volontà materna che indubbiamente esiste, come la volontà paterna. Ecco il cul-de-sac dell’ideologia queer. Se togliamo tutto ciò che con le relazioni private e la famiglia non c’entra, pretese socialiste, intolleranza linguistica (non puoi usare queste parole, altrimenti diventi fascista), quello che resta riguarda le solite relazioni private e la solita famiglia, ma con altri nomi.
Lo stesso desiderio, lo stesso sentimento, che una sorta di isteria anticonformista, un giovanilismo da bastian contrario, vuole riscrivere, senza sapere bene come cancellarlo. Michela Murgia voleva essere madre, ma non riusciva a sopportare di essere madre nel modo in cui il senso di maternità si esprime da sempre, come “termine fisso d’etterno consiglio”, cioè autorità indiscussa di una storia (nel caso di Dante la storia della salvezza) che riguarda tutti, ribelli e non. Dispiace vedere che gli spiriti rivoluzionari, le teste calde, finiscano per cuocere e strapazzare concetti semplici che andrebbero serviti a temperatura ambiente, per non disintegrarne il sapore. Chi come la Murgia si è operato tanto – ma neanche tanto se si pensa che l’egemonia culturale in Italia è qualcosa di sinistra – affinché passassero certi messaggi depurati completamente dai loro attributi tradizionali, snaturandone la portata (anche sociale, civile, non solo personale) storica, passa per sentimentalista, per qualcuno che con quei sentimenti non sa che farci, perché non sa come scenderci a patti.
Poi resta tutto il discorso sulla gestazione per altri e la gravidanza surrogata, che la Murgia si premura di distinguere dal concetto stesso di maternità. Mi sembra una riflessione sana e lucida. Quello che si fa ha a che vedere con dei corpi animati, la cui volontà non dovrebbe essere in dubbio in nome di paturnie paternaliste. La donna che sceglie (anche per soldi) di prestare il suo utero non rovina né inquina il progetto di maternità della donna. Una donna che non può o non vuole partorire non sta acquistando una merce, ma sta pagando ciò a cui dà più valore in assoluto. I motivi, in realtà, a favore della gestazione, dovrebbero essere rintracciati in questo e dunque in un discorso opposto (di stampo marxista) rispetto a quello della Murgia. L’economia di libero mercato altro non è che il modo in cui un essere umano agisce razionalmente, creando una scala di valori e cercando di dare priorità a ciò che reputa più importante pure in un regime di condizioni scarse. Per questo paga (per una cena, per una mela, per una chitarra, per delle cure mediche, per un’istruzione universitaria migliore). La coppia disposta a pagare per avere un figlio sta suggerendo chiaramente che questa sia per loro la cosa più importante. Piuttosto, c’è da chiedere cosa ci sia di strano o anormale in tutto questo. Cosa ci sia di queer. Ancora una volta niente. Ecco perché, decostruita, la teoria queer appare irrimediabilmente un prodotto dell’intemperanza di chi sostiene pubblicamente quelle teorie, prive tuttavia di utilità e, in fondo, di senso.