Michela Murgia resta ancorata ai primi posti delle classifiche di vendita, dopo il generale Vannacci, un romanzetto rosa, l’ultimo libro di Stephen King. È tornata anche in edicola, campeggia intorno alle casse delle librerie. Questo sembra dar speranza ad alcuni, tra intellettuali e giornalisti, che hanno visto nella Murgia l’occasione migliore per creare una sorta di feticcio, un’icona di impegno civile e scrittura letteraria, non rendendosi conto che, se il primo talvolta c’è stato, la seconda era stata abbandonata dall’autrice sarda molto tempo fa.
Un articolo uscito mercoledì 20 settembre per La Stampa, firmato da Mirella Serri, si intitola entusiasticamente In classifica Murgia supera Murgia, la letteratura impegnata è la più richiesta. La Murgia, in altre parole, avrebbe vinto, e con lei quel filone letterario che tendiamo a considerare interessato alla res publica. Lei sarebbe l’erede di Pier Paolo Pasolini, paragone che almeno stavolta è stato messo tra parentesi, e ancora di più del Gruppo 63, un manipolo di entusiasti giovani avanguardisti di sinistra che “cercavano di combattere la mercificazione dell’opera d’arte”. Anche Michela Murgia lottò contro la mercificazione dell’arte, certo. Stando in Einaudi e Mondadori per anni, nel colosso berlusconiano che tanto disprezzava e che, almeno in parte, ha contributo a rendere la letteratura un fenomeno di massa e quindi spesso scadente.
Togliamoci subito un dubbio: “Non sarà che i lettori, e soprattutto i lettori giovani, si aspettano oggi dagli scrittori la discesa in campo e preferiscono, diciamolo con una battuta, il romanziere con l’elmetto, pronto a sporcarsi le mani pur di superare la dimensione esclusivamente letteraria della comunicazione?” No. Ieri in libreria una signora sulla settantina insieme all’amica si avvicina alla cassa, vede le edizioni Einaudi dei libri della Murgia e dice: “Non l’ho mai letta, visto che è morta e ne parlano tutti possono prenderne uno, che dici?”.
Spente le speranze progressiste di un rinnovato impegno generazionale coltivato con buone letture (l’impegno c’è, le letture mancano), la cosa che stupisce di più non è tanto questo nascondere le plateali contraddizioni di un’autrice che ha fatto delle sue battaglie politiche il motivo del suo successo; bensì l’idea che la Murgia rappresenti in qualche modo la cosiddetta letteratura impegnata e non parte di quella letteratura massificata, indistinta, confusa da cui vorrebbe distinguersi. Che i suoi libri siano alternativi al libro merce, che non siano cioè “falsi bisogni”, nonostante i libri della Murgia, soprattutto i saggi, siano in effetti portatori sani di tutti i morbi della letteratura di terza, quarta categoria. Temi complessi trattati con semplicismo, allucinazioni semplici trattate come pezzi d’arte e temi complessi, un mosaico tenuto insieme né dalla colla della logica né dalla visione di un’opera, ma dalla semplice e pura volontà di scrivere del tema engagé entro i limiti della propria ragione, o meglio della ragione collettiva, effettivamente modesta, dei suoi accoliti.
Dunque non è la Murgia a fare paura, come sostiene la Serri, ma la Serri. La Serri, la Valerio, il Saviano di turno, tutti colori che provano a farci credere che Michela Murgia sia letteratura impegnata, e non un prodotto commerciale di un’ideologia commerciale venduta a buon mercato in qualche facoltà, in televisione e nei social, tendenzialmente da influencer il cui successo dipende da una buona parlantina, un’ottima presenza, e una certa sensibilità politica in tinta con i tempi. Se consideriamo Michela Murgia letteratura impegnata, abbiamo un problema.